Allo stesso modo de “La fine della storia” di Francis Fukuyama, “Lo scontro delle civiltà” di Samuel Huntington è stato uno di quei testi più divisivi, mal compresi e spesso strumentalizzati del post- Guerra fredda. Le incomprensioni e le strumentalizzazioni hanno coinvolto tanto i detrattori quanto gli apologeti del pensiero huntingtoniano. Tutto ciò ha finito per legittimare un nesso tra gli scritti dell’autore e la narrativa degli ambienti neoconservatori americani, molto influenti durante l’amministrazione di George Bush Junior. Utilizzato come lente di ingrandimento per cercare di interpretare la fase storica inaugurata a seguito degli attentati dell’11 settembre 2001, riemerso con la minaccia dell’Isis, al netto delle strumentalizzazioni che ne sono state fatte, cosa può suggerirci il pensiero di questo intellettuale rispetto alle dinamiche mediorientali dell’oggi, in scenari che vanno dall’Afghanistan dei talebani 2.0 all’Iran in subbuglio?
Dalla fine della storia allo scontro delle civiltà
Novembre 1989: il famoso wind of change soffiava nei cieli di Berlino. Il mondo si apprestava a diventare un’unica comunità globale. L’uomo, altrimenti detto la bestia dalle guance rosse, sospinto dall’insopprimibile bisogno di riconoscimento, il thymòs, aveva decretato la fine del socialismo reale; sistema politico che, con il suo egalitarismo, ignorava e inconsapevolmente reprimeva quell’inalienabile pulsione umana alla megalotimia[1]. Pulsione che il connubio liberal-democrazia e capitalismo, invece, si impegnava a incanalare e contenere.
A conclusione de “La fine della storia”, suo saggio più noto, citando Alexandre Kojéve, Françis Fukuyama si chiedeva se l’umanità fosse ormai giunta a quel fatidico momento in cui “chiunque ragioni si senta costretto ad ammettere che vi sia una sola strada ed una sola destinazione”[2]: quella della rivoluzione liberal-democratica in tutto il mondo. Va tuttavia sottolineato come, leggendo bene tra le pagine del saggio e non facendosi ingannare esclusivamente dal titolo dell’opera, l’autore interpreti il post-storicismo – decretato dalla vittoria finale del liberalismo e della democrazia sugli altri sistemi – solo come uno degli ipotetici scenari futuri.
Poco tempo dopo l’uscita di The end of History, con un articolo pubblicato su Foreign Affairs, Samuel Huntington comincerà a mettere in dubbio la visione teleologica proposta da Fukuyama. Per l’intellettuale e professore di Harvard, la caduta del comunismo non avrebbe infatti determinato l’avvento di un’unica società globale, liberale e democratica, ma avrebbe posto le basi per una nuova tipologia di conflittualità. Una conflittualità che avrebbe contrapposto le varie civilizzazioni.
In tal senso, si rendeva necessario distinguere tra “la civiltà”, al singolare, e “le civiltà”, al plurale. Coniugando la locuzione al singolare si partirebbe dal presupposto dell’esistenza di un’unica civiltà moralmente degna e contrapposta alla barbarie, finendo inevitabilmente per porre l’accento su quello che viene definito processo di “civilizzazione”; un processo che spinge una determinata “cultura” a imporre ed esportare i propri valori e codici ad altre, considerate più o meno inferiori sul piano diacronico dell’evoluzione sociale.
Se parliamo invece di civiltà al plurale, postuliamo l’esistenza di più civilizzazioni portatrici di codici morali differenti, talvolta antitetici e difficilmente negoziabili. Potremmo inoltre aggiungere che per quasi ognuna di esse la storia, hegelianamente intesa, finisce per avere una propria finalità a cui tendere, che non è per forza di cose l’instaurazione di un ordine simile a quello della civiltà occidentale.
Huntington, Fukuyama e la narrazione neocon.
Una delle maggiori critiche che viene mossa rispetto all’elaborazione intellettuale di Samuel Huntington è quella di vedere le culture come un qualche cosa di monolitico, uniforme e statico. I suoi detrattori hanno spesso puntato il dito sul fatto che alla base della concezione del filosofo vi sarebbe un’errata considerazione dell’identità, pensata come granitica e irriducibile.
Facendo ad esempio riferimento a quella che Samuel Huntington sostiene essere un’insanabile contrapposizione tra Islam e Occidente, ci accorgiamo che la visione dell’autore tende da un lato a far coincidere l’Islam politico con l’Islam tout-court e dall’altro a presentare l’Occidente come un insieme chiuso, privo di quella dialettica e quella profondità storica che invece caratterizzano le diverse anime e i diversi ethos che lo compongono.
Tuttavia, non mettendo in dubbio il fatto che le identità siano suscettibili di mutamenti, occorre evidenziare come il percorso che porta a ridefinirle non sia immediato, pacifico e nemmeno indolore. Le culture poggiano su un sostrato composto di sedimenti morali e antropologici che si sono depositati nel corso di secoli. Sedimenti che difficilmente scompaiono dall’oggi al domani e che talvolta ambiscono a perdurare di generazione in generazione.
Motivo per cui l’assimilazione di popolazioni allogene spesso risulta problematica e di difficile da gestione, soprattutto a fronte di fenomeni di migrazione di massa. Essa necessita cioè di quella buffer zone soprattutto concettuale che è la frontiera, zona osmotica, ben lontana dalla rigidità del confine e in cui le identità di partenza possono riformularsi e adattarsi alle società di arrivo.
In ogni caso, la visione dicotomica e irrimediabilmente conflittuale tra mondo occidentale e civiltà islamica che emerge dall’opera di Samuel Huntington ha contribuito a creare una sorta di parallelismo e associazione tra il pensiero dell’autore e le linee di politica estera adottate dall’amministrazione di George Walker Bush. Linee di politica estera che hanno fatto seguito agli attentati dell’11 settembre 2001. Va tuttavia considerato che, alla luce di un’attenta analisi del pensiero dell’intellettuale di Harvard, le politiche messe in atto da tale amministrazione confliggono con il pensiero dell’autore.
In effetti, nella sua più celebre opera, “Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale” questi afferma che “la principale responsabilità dei leader occidentali non sia di tentare di rimodellare le altre società a immagine e somiglianza dell’Occidente – cosa che va al di là delle loro sempre più ridotte capacità – bensì preservare, proteggere e rinnovare le qualità peculiari della civiltà occidentale”[3].
Sembrerebbe quindi che l’amministrazione Bush, sotto la spinta dei suoi esponenti neoconservatori, abbia quasi sintetizzato le due opposte visioni di Fukuyama e Huntington, ignorandone però alcuni elementi fondamentali, e costruendo una narrazione atta a legittimare le proprie scelte di politica estera. Una narrazione che si ispirava ad Huntington riguardo all’irriducibile conflittualità tra Islam Occidente e a Fukuyama in merito alla naturale ambizione dell’umanità tutta ad adottare i valori liberal democratici occidentali. Valori che, per l’amministrazione Bush, si sarebbero potuti e dovuti esportare anche attraverso azioni di “guerra umanitaria”, stante il postulato implicito per cui l’anelito alla libertà faccia sempre premio sull’istinto all’autoconservazione[4].
Huntington oggi
Alla luce di queste considerazioni, cosa potrebbe suggerirci l’elaborazione intellettuale di Huntington oggi, rispetto ai recenti avvenimenti che hanno interessato lo scenario mediorientale, quali il ritiro statunitense dall’Afghanistan e le proteste in Iran contro il regime degli Ayatollah?
Utilizzando il pensiero dell’autore de “Lo Scontro delle civiltà” come chiave interpretativa, potremmo domandarci se in entrambi i casi non stiamo commettendo l’errore ermeneutico di applicare il nostro metro di giudizio, i nostri valori e le nostre aspettative a un contesto del tutto differente.
Fatta eccezione per le fasce di popolazione urbana istruite, “globalizzate” e a noi più o meno affini, siamo sicuri che in quei luoghi l’opinione e la “pancia” del Paese profondo sia così ostile al potere talebano o alla teocrazia islamista degli Ayatollah?
Le proteste in Iran sono esclusivamente legate all’emancipazione femminile e al velo? C’è un elemento identitario? Vi è certezza che l’ambizione principale degli iraniani, popolo che storicamente tende ad autorappresentarsi come un impero e a reclamare la propria alterità, sia quella di occidentalizzarsi? Come è possibile che una popolazione che poco tempo prima era accorsa in massa ai funerali del generale Qassem Soleimani, gridando vendetta per l’esecuzione di un altolocato esponente del regime, sia oggi così compatta nel voler rovesciare quello stesso regime in nome di una società liberal-democratica? O, piuttosto, le proteste sono indice di una frattura nel corpo sociale che è generazionale, identitaria, etnica, ma comunque non identificabile secondo i canoni della “fine della storia” e della vittoria della liberal democrazia su scala planetaria?
Non potrebbe essere che, a dispetto delle rigide regole sociali e dell’evidente malgoverno, la pax talebana, dopo più di vent’anni anni di guerre e devastazioni che hanno martoriato l’Afghanistan, venga percepita come il male minore da quella parte della popolazione lontana dall’urbe, più sensibile alle istanze tradizionali e avversa all’individualismo perché più legata a strutture clanico tribali? Segmento di popolazione le cui priorità, oggi, non sono la libertà e l’emancipazione, ma riguardano la sopravvivenza.
[1] Per Fukuyama questa pulsione rappresenta l’insopprimibile desiderio umano a vedere riconosciuta la propria diversità e il proprio talento; la molla che fa scattare l’ambizione. Pulsione parallela e contraria all’isotimia, ovvero il desiderio ad essere invece riconosciuti come eguali agli altri. Entrambe queste pulsioni concorrono ad articolare il thymòs, ovvero, più in generale, il fondamentale bisogno di riconoscimento.
[2] Francis Fukuyama, La fine della storia e l’ultimo uomo, ed.4 BUR Rizzoli, Milano 2017, p. 352.
[3] Samuel Huntington, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, Milano 2000, p. 464.
[4] Interessante notare come durante la recente pandemia questo postulato sia stato sconfessato in modo evidente.