Il terremoto scuoterà anche la riabilitazione di al-Asad?

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Fonte: Fabrice Balanche_ https://www.washingtoninstitute.org/policy-analysis/assad-regime-has-failed-restore-full-sovereignty-over-syria

Il devastante terremoto che ha scosso la regione di confine tra Siria e Turchia è arrivato nel momento in cui i due paesi stavano progredendo verso una lenta normalizzazione dei rapporti diplomatici. I danni e le vittime causate dal terremoto sono aumentati di giorno in giorno; ora, si parla di oltre 45.000 decessi.

Per comprendere la portata della catastrofe, è sufficiente ricordare che i terremoti dell’Aquila e di Amatrice, insieme, abbiano provocato la morte di circa 600 persone. Dinnanzi a questo cataclisma si è attivato un ampio fronte di stati che hanno inviato aiuti sul campo. Tuttavia, gli aiuti umanitari sul territorio siriano sono arrivati in ritardo e in quantità risibile a causa della frammentazione politica del territorio (controllato da diverse entità ostili al regime di Bashar al-Asad) e del rifiuto delle potenze occidentali di far passare gli aiuti da Damasco, mossa che in qualche misura riconoscerebbe, se non la legittimità, l’autorità del regime baathista.

Per questo, gli aiuti statunitensi ed europei sono coordinati con ONG locali che però operano solo nelle zone esterne al controllo dalle autorità governative. I paesi che per primi hanno mostrato concreta solidarietà al governo siriano sono stati, oltre a Russia e Iran, i regimi arabi: dal Golfo al Maghreb. A partire dagli EAU, ma anche l’Algeria, che aveva tentato nell’ultimo vertice della Lega Araba di far reintegrare la Siria nell’alveo dell‘organizzazione regionale, e ancora, l’Iraq, la Giordania e l’Egitto, il cui Presidente al-Sisi ha chiamato (per la prima volta) la controparte siriana ribadendo “solidarietà alla Siria e al suo popolo fraterno in questa calamità, ordinando di fornire qualsiasi aiuto. 

Come accennato, la Siria si trovava al centro di un graduale processo di normalizzazione dei rapporti politici non solo con la Turchia, ma con tutto il mondo arabo. Viene allora da chiedersi come il terremoto si inserisca in questo contesto: se accelererà o bloccherà la normalizzazione in corso. 

L’isolamento siriano

Le proteste nate all’interno del fenomeno delle “primavere arabe”, divampate tra il 2010 e il 2011 in gran parte dei paesi del Medioriente, colpirono anche il regime del Presidente Bashar Al-Asad, duramente contestato dalla popolazione che chiedeva maggiore democraticità nei processi politici. La risposta del regime non si fece attendere e represse nel sangue le proteste. La repressione si trasformò in breve tempo in guerra civile che contrappose, da un lato, le truppe fedeli al regime, dall’altro, un mosaico di forze civili, infiltrate in poco tempo da gruppi islamisti.

All’interno del contesto della guerra civile siriana si inserì anche la guerra all’ISIS, nonché la lotta per l’indipendenza dei Curdi, che attualmente controllano ampie zone al nord-est della Siria (il territorio conosciuto come Rojava). In tutte queste contrapposizioni, giocarono un ruolo fondamentale le potenze regionali, così come Russia e Usa. Semplificando per brevità, gli Stati Uniti, pur sostenendo l’illegittimità del regime siriano, intervennero nel quadro della guerra al terrore colpendo le posizioni dell’ISIS. La Russia, anch’essa intervenuta per scoraggiare la proliferazione dello Stato Islamico, di fatto sostenne il regime di al-Asad, ancora in piedi solamente grazie all’intervento di Mosca.

L’altra potenza che appoggiò il regime siriano fu l’Iran, anche tramite le milizie sciite libanesi di Hezbollah. Per quanto riguarda le potenze regionali, a partire da Turchia, Qatar e Arabia Saudita, finanziarono i gruppi di opposizione al regime e decretarono l’isolamento pressocché totale del regime siriano, che infatti venne espulso già nel 2011 dall’organizzazione regionale della Lega Araba. 

Graduale normalizzazione del regime siriano

La cristallizzazione del conflitto siriano, in seguito alla sconfitta dell’ISIS e alla riconquista di ampie porzioni di territorio da parte delle forze lealiste, ha innescato un timido processo di normalizzazione delle relazioni tra Siria e paesi arabi. I paesi promotori di questo avvicinamento sono stati Emirati Arabi Uniti e Bahrein che hanno riaperto le rispettive ambasciate nel paese levantino nel 2018. In seguito, è stato il turno dell’Oman che nel 2020 ha reintegrato il suo ambasciatore in Siria.

Più recentemente, sono arrivati altri segnali che hanno fatto pensare ad una riabilitazione del regime siriano, perlomeno nel mondo arabo. Innanzitutto, l’incontro informale tra i ministri degli esteri egiziano e siriano ai margini di una conferenza dell’Assemblea Generale dell’Onu nel settembre 2021, il primo dallo scoppio della guerra civile; poi, l’apertura da parte della Giordania del valico di frontiera più importante tra Damasco e Amman. 

Il segnale più importante è però arrivato con la partecipazione del governo siriano al negoziato che ha coinvolto Egitto, Libano, Giordania e appunto Siria, per far fronte alle carenze energetiche nel paese dei Cedri, sfruttando un gasdotto che passa proprio per la Siria (Arab Gas Pipeline). Un incontro che testimonia l’impossibilità di continuare ad escludere la Siria da qualsivoglia progetto regionale. Per quanto riguarda la Turchia, il presidente Erdogan ha avuto un ruolo di primo piano nella guerra civile siriana.

Da un lato, ha appoggiato gruppi islamisti per affermare l’influenza turca in Siria, dall’altro ha colto l’occasione per intervenire militarmente contro i curdi siriani (che rappresentano una minaccia all’integrità territoriale della Turchia). Nonostante ciò, già lo scorso anno, Ankara aveva aperto ad una riconciliazione con Damasco, spinta della necessità di trovare una soluzione per i quasi quattro milioni di profughi siriani ammassati in Turchia, che rappresentano una spinosa questione di politica interna sempre più cavalcata dall’opposizione. 

Il processo di normalizzazione che ha interessato e continua ad interessare la Siria è guidato principalmente da due interessi. Il primo, di tipo economico, intravede un’opportunità non solo nella ricostruzione del paese (per chi ha disponibilità finanziaria come gli EAU), ma anche nella ripresa di quei rapporti commerciali ed economici con un paese situato nel cuore della regione e che rappresenta un tassello fondamentale per il fiorire dell’economia regionale.

A testimonianza di ciò, possiamo citare l’incontro svoltosi nel 2021 tra i capi di governo irakeno, egiziano e giordano, dove i leader hanno concordato una maggiore cooperazione in ambito economico, energetico e securitario. Inoltre, hanno espresso la volontà di trovare una soluzione per la decennale crisi siriana che ha destabilizzato tutta la regione. È la Giordania, in particolare, che ha cercato maggiormente di riallacciare i legami economici e commerciali con la Siria, paese con cui prima della guerra intratteneva floridi rapporti. Il secondo interesse è più di natura strategica e consiste nel mettere un argine alla forte influenza iraniana nel paese. 

Come si inserisce il terremoto in questo contesto?

A inizio gennaio, come riportato da Al-Monitor, Erdogan si è spinto ad affermare che Russia, Turchia e Siria hanno avviato un processo che si concluderà con l’incontro, prima, dei rispettivi capi di intelligence, poi, dei ministri degli esteri e infine degli stessi leader. Un mese dopo questa dichiarazione il terremoto si è abbattuto su Siria e Turchia. Questa catastrofe potrebbe accelerare la riabilitazione del regime siriano. È infatti chiaro che la priorità del Presidente Bashar al-Asad, dopo aver riportato sotto il suo controllo gran parte del territorio nazionale, sia quella di riguadagnarsi legittimità agli occhi della “comunità internazionale”, e di porre fine al regime sanzionatorio che attanaglia l’economia siriana dal 2011.

Come abbiamo visto, sono diversi gli attori regionali che vedono favorevolmente una riabilitazione del regime. La catastrofe naturale, che si somma alla già imperante crisi umanitaria, potrebbe essere il pretesto per una accelerazione di questo processo. Mascherati dalla solidarietà araba, gli aiuti porteranno ad un intensificarsi dei contatti con il regime siriano. Inoltre, anche gli Stati Uniti, che più si sono opposti alla riabilitazione di al-Asad, sembrano mostrare qualche segno di apertura: dal nulla osta concesso a giordani e libanesiper la riattivazione dell’Arab Gas Pipeline, all’allentamento delle sanzioni a seguito del terremoto.

Anche lo stallo politico con la Turchia, ora che si è aggiunta la variabile terremoto, potrebbe ricevere uno scossone. Infatti, il presidente russo Vladimir Putin (considerato come il mediatore principale in Siria a seguito del processo di Astana del 2017) ha sempre spinto i due leader ad una riconciliazione, e ora più che mai si trova in una posizione di forza rispetto ad entrambi i presidenti. Per di più, alla luce delle prossime elezioni e delle critiche arrivate dall’opposizione per la gestione dell’emergenza, è diventato vitale per Erdogan capitalizzare quanto seminato finora e giungere ad un accordo con al-Asad.

L’accordo includerebbe senz’altro una soluzione per il rimpatrio di quasi quattro milioni di profughi siriani, che rappresentano una delle principali cause di malcontento tra la popolazione. Anche la popolazione curda siriana, rappresentando una minaccia per l’integrità territoriale di entrambi gli stati, potrebbe essere al centro del negoziato. Di fatto, è da tempo che Ankara avverte di voler conquistare una “zona sicura” al nord della Siria per contrastare la minaccia curda (nella cartina: la zona in arancione intorno Kobane tra le due lingue di terra marroni). Infine, la stabilità della Siria e la ripresa economica costituirebbero senz’altro due elementi positivi per la disastrata economia turca e regionale, specialmente a seguito del terremoto. Appare dunque probabile che la diplomazia degli aiuti sarà sfruttata per accelerare il reintegro della Repubblica Araba di Siria, quantomeno nel contesto regionale. 

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