Il presidente turco Erdoğan ha annunciato per maggio le prossime elezioni presidenziali, vero e proprio giro di boa per la sua amministrazione, tra crisi economica e di consenso e una leadership nel Mediterraneo ancora da scrivere. Il risultato appare incerto quanto mai prima d’ora, soprattutto dopo il terremoto che ha colpito la Turchia e che ha provocato decine di migliaia di vittime.
Le forze in gioco
Le elezioni di maggio 2023 rappresentano la più grande sfida di politica interna per Erdoğan dalla sua prima vittoria con l’AKP nel 2002. Mai come oggi il risultato è particolarmente incerto per via di un clima di proteste e un fronte compatto all’opposizione che potrebbe canalizzare i voti degli indecisi. Come se non bastasse, i risultati delle urne e la possibilità stessa di andare al voto, sono minati dal terremoto che ha colpito la Turchia il 6 febbraio scorso, provocando decine di migliaia di vittime e creando un dibattito acceso sulla possibilità di posticipare la data di maggio.
Ad oggi, sembra che la partita possa essere giocata da due schieramenti: Alleanza Popolare composta dall’AKP e dal MHP, movimento conservatore di estrema destra e Alleanza Nazionale o “gruppo dei sei” che conta al suo interno il CHP, partito fondato da Atatürk, Partito della Democrazia e del Progresso (DEVA), il Partito İYİ (Buono), il Partito Felicity, il Partito Democratico e il Partito del Futuro. Più distaccata nei sondaggi è invece Alleanza del Lavoro e della Libertà, composta da sei partiti curdi guidati dal Partito Democratico del Popolo (HDP) il cui ex leader Demirtas si trova in carcere dal 2016 con l’accusa di aver intrattenuto rapporti con le milizie del PKK. Nonostante alcune visioni politiche diverse, lo stesso Demirtas ha aperto ad una possibile collaborazione programmatica con Alleanza Nazionale.
Secondo gli ultimi sondaggi del MetroPOLL, Organizzazione turca indipendente impegnata nella ricerca strategica e sociale, l’AKP oscillerebbe tra il 31-35% in calo netto rispetto al risultato del 2018 che l’hanno visto trionfare con oltre il 42% e l’MHP tra il 6-7%, in calo di ben quattro punti. L’Alleanza Nazionale rischierebbe, invece, di superare il 40% con una forbice di 9 milioni di elettori ancora incerti. Va ricordato che Erdoğan, su sua proposta, ha abbassato la soglia di sbarramento elettorale dal 10% al 7%.
Questi risultati, sicuramente significativi, vanno però analizzati in maniera oculata, in quanto non si conosce ancora il nome del candidato presidenziale su cui l’opposizione avrebbe dovuto sciogliere le riserve il 13 febbraio, data ovviamente posticipata a causa del disastro naturale che ha colpito il Paese. Sancar, attuale leader dell’HDP, ha affermato che non si tirerebbe indietro se i leader dei “sei” affermassero: «Parliamo apertamente, conduciamo i negoziati», rispetto alla possibilità di sostenere un unico candidato.
Tra i possibili nomi, i più caldi attualmente sono quelli di İmamoğlu, sindaco di Istanbul, Kılıçdaroğlu, attuale leader del CHP e Yavaş, sindaco di Ankara. Il primo è quello che ha inflitto la prima pesante sconfitta politica dell’era Erdoğan all’AKP, facendo perdere allo stesso il controllo della città più grande della Turchia. Attualmente il membro del CHP però è in carcere, con una condanna di due anni e sette mesi per aver offeso dei funzionari statali.
Nonostante l’appello richiesto dagli avvocati, che potrebbe comunque superare i tempi in cui vanno ufficializzati i candidati, una conferma della sentenza non solo estrometterebbe İmamoğlu come possibile candidato della coalizione ma interromperebbe definitivamente anche il suo mandato di sindaco di Istanbul. Questa situazione ha sicuramente creato malcontento nell’elettorato e lo stesso democratico, in un’intervista al Financial Times, ha dichiarato: «Erdoğan subirà una pesante sconfitta per aver cercato di ostacolare la democrazia», nonostante il presidente turco abbia smentito un suo coinvolgimento. Il nome di Kılıçdaroğlu invece, non è stato preso ufficialmente in considerazione per ora, anche se risulta impensabile non prendere in riferimento il leader del più grande partito di opposizione del Paese.
Tra i principali punti a sfavore che allontanano una sua candidatura, c’è quello di non aver fatto accrescere in maniera consistente il seguito del CHP, nonostante le vittorie amministrative ad Ankara ed Istanbul, quello di non essere considerato un leader carismatico e di avere fede alevita[1], elemento che potrebbe essere sfruttato da Erdoğan a suo vantaggio, in un dibattito politico che assume connotati fortemente religiosi. Yavaş è, invece, un nome che potrebbe mettere d’accordo tutti i partiti dell’opposizione. Apprezzato dall’opinione pubblica, il sindaco di Ankara ha saputo amministrare la città in maniera trasparente. I dubbi sul suo nome sono da riferirsi all’inesperienza in campo nazionale e alla presenza, all’interno della sua amministrazione, di ex membri del MPH, fattore che potrebbe allontanare i voti delle minoranze curde[2].
Fattore economico
Gli ultimi dati del The Economist mostrano come, attraverso il Democracy Index del 2022, la Turchia registri un valore totale di 4.35, 3.50 per il pluralismo e i processi elettorali e 2.06 per quanto riguarda le libertà civili. Piazzata al 105° posto, nella fascia dei regimi ibridi, è a sole cinque posizioni dall’essere considerata un regime autoritario. Su questo risultato hanno sicuramente pesato le riforme promosse da Erdoğan negli ultimi 5 anni e la costante volontà di azzerare il dissenso. Nonostante questi dati preoccupanti, pare che gli elettori si stiano focalizzando di più sul fattore economico e meno su quello di politica interna o internazionale per la loro scelta elettorale.
Per usare un eufemismo, probabilmente la situazione economica del paese è ancora più preoccupante. Secondo gli ultimi dati del Turkstat, nonostante i consumatori turchi abbiano aumentato la loro fiducia nei confronti della situazione finanziaria per i prossimi 12 mesi, nel 2022 l’inflazione ha raggiunto un picco dell’80% con una perdita di salari reali per circa il 5%. In tal senso, è chiara la volontà di Erdoğan di incrementare il ruolo della Turchia come prima potenza regionale del Mediterraneo, grazie ad accordi regionali energetici, con la possibilità di diventare un hub nel breve-medio periodo.
Rispetto al commercio estero invece, negli ultimi mesi è evidente il rapporto sempre più stretto tra Erdoğan e Putin: a dicembre è infatti la Russia il primo paese per import della Turchia, con un aumento del 57% rispetto al 2021. Le stime dimostrano come la Turchia, entro il 2024, possa inoltre entrare tra le prime 10 nazioni per export mondiale, con un capitale di 300 miliardi di dollari.
Se è chiaro l’intento di Erdoğan di incrementare il proprio commercio estero tramite partnership sempre più importanti con Russia e Cina e attraverso la stabilizzazione dei rapporti nell’area Medio Orientale, resta da capire come un eventuale nuovo Governo possa approcciarsi al lavoro svolto in politica estera dall’AKP.
Secondo Reuters, una possibile sconfitta di Erdoğan causerebbe una grave recessione economica nel breve periodo per poi stabilizzarsi successivamente grazie a politiche finanziarie più sostenibili. Mentre una sua eventuale vittoria presidenziale, ma con l’AKP senza maggioranza in parlamento, il rischio è sicuramente più alto e le possibili conseguenze incerte.
I possibili scenari
È chiaro come queste elezioni segnino uno scontro non solo programmatico, ma soprattutto ideologico. Una possibile vittoria di Erdoğan aprirebbe il campo per la piena realizzazione di un neo-ottomanesimo sempre più vasto, con la seria possibilità da parte di Ankara di diventare leader del Mediterraneo. La linea estera, del resto, è chiara da sempre: la dottrina Çavuşoğlu (attuale Ministro degli Esteri) allontana sempre di più la Turchia dai mercati e dalle politiche europee e la avvicina ad una presenza incontrastata e determinante nell’Africa Settentrionale e nell’Asia centrale. La volontà di accrescere lo “spirito turco” è data anche (e soprattutto) da ragioni geopolitiche: a dicembre, l’Organizzazione degli Stati Turchi, ha accettato la richiesta di adesione di Cipro Nord come membro osservatore. Questo, de facto, la rende uno Stato riconosciuto a livello internazionale (l’UE si oppone ancora) e apre nuove frontiere economiche già ampiamente discusse con la Libia per l’utilizzo di quella circostanziata aria marittima.
Per quanto riguarda le relazioni turco-americane invece, è evidente come la chiara bocciatura da parte di Ankara per quanto concerne l’entrata nella NATO della Svezia, rappresenti un’esplicita richiesta da parte di Erdoğan di ricevere dagli Stati Uniti un chiaro supporto nelle operazioni anti-curde portate avanti dall’AKP, soprattutto in Iraq e sul confine siriano. Il presidente turco si è invece mostrato disponibile ad accogliere le richieste della Finlandia, che non ha una chiara politica di sostegno alla popolazione curda.
Le opposizioni hanno mostrato negli ultimi mesi posizioni diametralmente opposte: riavviare i negoziati con l’UE per l’ammissione della Turchia, accettare la richiesta della Svezia di entrare nella NATO e in generale una chiara politica pro-occidente e pro-Stati Uniti. Le stesse opposizioni, tra l’altro, ritengono illegittima una nuova candidatura di Erdoğan, che però, con la riforma costituzionale del 2017 ha di fatto azzerato la candidatura precedente del 2014, con la possibilità dunque, di candidarsi per la terza volta consecutiva. I dossier presentati all’interno del programma dell’Alleanza Nazionale vanno nella direzione di riforme strutturate, riguardanti il rafforzamento del potere del Parlamento e il ritorno ai principi di indipendenza e imparzialità dei media e delle emittenti nazionali. Resta però il nodo curdo, non trattato all’interno del programma, probabilmente nell’attesa di conoscere il candidato presidente.
Ad oggi, risulta impossibile capire quanto l’evento sismico del 6 febbraio abbia modificato gli equilibri finora in gioco. Nelle prossime settimane il dibattito sarà focalizzato sull’acceso scontro tra Erdoğan e il CHP sulla possibilità di posticipare le elezioni, in modo da proclamare lo stato di emergenza per soccorrere le aree colpite dal sisma.
[1] Gli aleviti rappresentano il 20% della popolazione turca e sono da sempre discriminati. Vengono definiti come una confraternita eterodossa di derivazione sciita e venerano ‘Ali, cugino e genero del Profeta Maometto e suo figlio Hussein. Hanno maturato rituali e una tradizione teologica, musicale e culturale proprie.
[2] Gözaydın, Öztürk “Turkey’s 2023 Election: Which Candidates Can Defeat Erdoğan at the Polls?”, Hellenic Foundation for European & Foreign Policy, ELIAMEP | Policy paper #120/2022.