Nella corsa agli “armamenti tecnologici” tra Stati Uniti e Cina sembra emergere un nuovo “campo di battaglia”: i componenti che alimentano i nostri telefonini, computer, automobili ed elettrodomestici.
“We need to make these chips here in America”, così ha esordito il presidente Joe Biden nell’ottobre scorsoparlando a Poughkeepsie, dove l’IBM costruisce computer all’avanguardia, sede designata per l’occasione per annunciare nuovi controlli all’export di semiconduttori e di apparecchiature per la produzione di chip in Cina. Le restrizioni imposte riguardano la vendita di chip avanzati per l’intelligenza artificiale e il supercalcolo; la vendita di apparecchiature di ultima generazione per la produzione di semiconduttori e articoli correlati che soddisfano specifici standard tecnici. Le sanzioni decise vanno a colpire persino tutte quelle persone di nazionalità americana che partecipano allo sviluppo o alla produzione di chip avanzati nelle fabbriche locate nel Paese asiatico.
“The supply chain is going to start here and end here, in the United States”, ha detto Biden in quella occasione, proseguendo poi: “I’m not joking”, ovvero letteralmente, “Non sto scherzando”.
I controlli sulle esportazioni si propongono, infatti, di bloccare la vendita alla Cina di semiconduttori realizzati con tecnologia americana, oltre a impedire ai cittadini statunitensi di lavorare con i produttori di chip cinesi senza autorizzazione esplicita. L’obiettivo dell’amministrazione Biden è quello di limitare l’accesso cinese a tecnologie e conoscenze critiche, per rallentarne i progressi tecnologici e militari.
Taiwan: “cigno nero” sulla catena di approvvigionamento di microchip?
Dopo che la pandemia di Covid-19 aveva già comportato una carenza globale nella fornitura di chip, nel corso del 2022 le quarantene imposte da Pechino per cercare di fermare la recrudescenza del virus hanno ulteriormente bloccato le fabbriche e “arrugginito” le catene di approvvigionamento dei semiconduttori.
Washington come vuole.superare le difficoltà di approvvigionamento? In primo luogo è utile ricordare a questo proposito l’iniziativa del Segretario al Tesoro degli Stati Uniti Janet Yellen che ha più volte rimarcato l’importanzadel “friend-shoring”, ovvero lo “spostamento” delle catene di approvvigionamento verso alleati statunitensi come Corea del Sud e il Giappone, con l’obiettivo di isolare ulteriormente l’industria tecnologica del Dragone.
Non di minore importanza è il “Chip 4”, alleanza proposta da Biden con Taiwan, Giappone e Corea del Sud che mirerebbe ad escludere la Cina dal mercato dei semiconduttori. Un’alleanza che ovviamente al Dragone risulta indigesta per la presenza al suo interno di Taipei.
Diversi sono infatti i produttori mondiali di semiconduttori che hanno sede nell’isola, tra cui Taiwan Semiconductor Manufacturing Company o TSMC che vanta una quota di oltre il 50% nel mercato globale della produzione di semiconduttori: tra i suoi clienti spiccano Apple e Huawei, ma anche Intel, Nvidia Broadcom e Qualcomm.
“Nessuno può controllare TSMC con la forza”, ha dichiarato il presidente della società, Mark Liu, in una recente intervista alla CNN. TSMC ha già impegnato almeno 12 miliardi di dollari per la costruzione di un impianto di fabbricazione di semiconduttori nello stato americano dell’Arizona. Un nuovo investimento, che si somma all’attuale costruzione di una prima fabbrica iniziata nel 2021 (e non ancora completata) sarà di 40 miliardi di dollari. Le scorse settimane si è svolto l’attesissimo incontro tra Tim Cook, Biden e i vertici di TSMC tra cui il fondatore Morris Chang a Phoenix. Il presidente degli Stati Uniti durante la visita al cantiere del nuovo stabilimento dell’azienda di Taiwan ha dichiarato che “quanto sta accadendo in Arizona avrà ripercussioni in tutto il Paese, e anche a livello globale”. Una volta in funzione gli impianti di TSMC produrranno una quantità sufficiente di chip tale da coprire la domanda annuale statunitense.
Tutto merito del CHIPS and Science Act che negli intenti della Casa Bianca dovrà spingere le aziende a investire negli Stati Uniti grazie anche al credito d’imposta sugli investimenti del 25 per cento per le spese nelle attrezzature? Non è tutto oro ciò che luccica e lo dimostrerebbe il fatto che le restrizioni imposte da Biden hanno lasciato aperto uno spiffero che sta lasciando ancora un discreto margine di manovra, permettendo così ad alcune aziende americane di eludere le sanzioni e fari affari con Pechino.
Come aggirare le restrizioni. Il caso Nvidia.
I crescenti controlli sulle esportazioni di semiconduttori statunitensi in Cina risultano essere parte, infatti, di un preciso piano strategico: i divieti rispondono al preciso scopo di impedire che i chip di fascia alta possano essere utilizzati dall’esercito cinese o per facilitare le pratiche di abuso dei diritti umani.
L’ambito delle restrizioni incontra però un limite, rimanendo circoscritto: riguarda infatti le nuove domande di licenza piuttosto che l’imposizione di divieti assoluti e solamente i chip informatici che possono essere impiegati per la creazione di supercomputer, ma non quelli adoperati per gli smartphone di fascia alta.
Le pratiche dell’americana Nvidia, ad esempio, che sta offrendo alla Cina semi-apparecchiature di fascia alta alternative, suggeriscono come anche i fornitori, pur limitando le capacità tecnologiche del prodotto, possano riuscire ad eludere le restrizioni.
La mossa messa in campo da Nvidia ha inoltre un valore puramente tecnologico. Il lancio di “A800”, prodotto che è già valso un rialzo del 2,8% in borsa e che in futuro potrebbe evitare alla compagnia perdite per 400 milioni di dollari in mancati guadagni, a causa del divieto di esportazione verso i mercati cinesi rappresenta un nuovo chip di elaborazione grafica in grado di superare le restrizioni dell’amministrazione Biden all’export dei chip di fascia alta.
L’A800 sostituirebbe l’A100, un chip ampiamente utilizzato nei server e nelle applicazioni di intelligenza artificiale da alcuni giganti della tecnologia del Dragone, tra cui Alibaba, Tencent Holdings e Baidu. Le GPU A100 Tensor Core sono infatti troppo potenti e ricadono nelle nuove norme statunitensi che vietano l’esportazione di simili prodotti in Cina. La A800 è, difatti, una versione depotenziata che rientra nei limiti imposti.
In ragione di queste pratiche di elusione, con le attuali restrizioni che di fatto non colpiscono i chip per gli smartphone di fascia alta e gli altri prodotti di elettronica di consumo, sulla falsariga anche di quanto affermato da Barclays, l’effetto immediato della legge approvata da Biden sulla produzione e il consumo della Cina potrebbe essere limitato.
E se Biden decidesse di stringere ulteriormente la morsa?
Le restrizioni imposte da Biden potrebbero aprire due scenari. Il primo stima che Pechino avrà perdite per un valore pari a 60 miliardi di dollari, che corrisponderebbe al 13% del consumo totale di chip nel Paese. L’impatto diretto delle misure potrebbe intaccare la crescita annuale del pil cinese di 0,1-0,2 punti percentuali.
Il secondo scenario valuta invece l’ipotesi di un’estensione delle restrizioni che andrebbe ad abbracciare anche la fascia più bassa dei semiconduttori e quei chip d’uso commerciale o civili. In questo caso le restrizioni potrebbero costare al Dragone 1 o 3 punti percentuali di pil. Ad essere seriamente danneggiata sarebbe la capacità cinese di produzione di chip di fascia medio-bassa. Una constatazione che potrebbe indurre Biden a stringere ulteriormente le maglie attorno a Pechino.
Biden, d’altra parte, dovrà necessariamente tenere conto come risulti però praticamente impossibile spezzare i legami con la catena di approvvigionamento globale, in particolare per prodotti integrali e complessi come i semiconduttori. Sebbene gli Stati Uniti cerchino con tutte le loro forze di localizzare la produzione, un certo grado di interdipendenza è in un certo modo quasi “obbligatoria” rimane comunque inevitabile.