L’USO DEGLI AIUTI UMANITARI COME ARMA DI GUERRA IN ETIOPIA

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Nel Tigray, gli effetti combinati del conflitto armato e dell’uso strategico degli aiuti umanitari come arma di guerra rischiano di causare un peggioramento esponenziale della crisi umanitaria

Nel Tigray, regione settentrionale dell’Etiopia – già teatro degli scontri con la confinante Eritrea a partire dal 1998 –, la guerra civile scoppiata lo scorso novembre rappresenta una drammatica crisi politica e umanitaria, la cui gravità, visti i mancati progressi in fatto di risoluzione del conflitto, è destinata ad aumentare.

A causa delle restrizioni imposte all’attività giornalistica dal governo del Paese e dell’interruzione delle telecomunicazioni e dell’accesso ai media e alla rete Internet in tutta la regione, del conflitto civile nell’area non trapelano molte informazioni. Tuttavia, sempre più spesso, arrivano notizie circa indiscriminati attacchi militari verso i civili e atroci violazioni dei diritti umani – stupri di massa, esecuzioni sommarie, pulizia etnica –, perpetrati tanto dall’esercito etiope – alleato con l’Eritrea contro il Fronte per la Liberazione del Popolo Tigrino (TPLF) – quanto dai militanti tigrini, nei confronti della popolazione locale, denunciati anche dall’Alto Commissario per i Diritti Umani delle Nazioni Unite Michelle Bachelet come crimini di guerra e crimini contro l’umanità

Tutto ciò ho peggiorato la drammatica crisi umanitaria che vige nella regione, già in condizione precaria anche per via degli effetti del cambiamento climatico: basti pensare che solo 13 di 38 ospedali e 41 di 224 strutture sanitarie di base sono funzionanti, il cibo è scarso, mentre gran parte della popolazione locale vive in stato di estrema povertà. Nel Paese, inoltre, si avvicina la stagione delle piogge, il periodo dell’anno in cui si semina per raccogliere gli alimenti l’anno successivo, ma la distruzione di attrezzi agricoli, sementi, proprietà e interi villaggi, in aggiunta allo sfollamento della popolazione, rende ciò quasi impossibile, con il rischio di causare problemi di lungo termine. 

Gli aiuti umanitari sono quindi di primaria importanza, potendo alleviare, per quanto possibile, il fardello sulle spalle della comunità locale: secondo l’Ufficio delle Nazioni Unite per gli Affari Umanitari (OCHA) e il Direttore Generale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità Tedros Adhanom Ghebreyesus, egli stesso di provenienza tigrina, nella regione oltre il 90% della popolazione ha bisogno di assistenza alimentare, mentre quasi 5 milioni di persone necessitano di aiuti.

Tuttavia, sempre più spesso, questi ultimi vengono utilizzati strategicamente dal governo, come arma. Non è insolito l’uso strategico degli aiuti umanitari – tanto da parte dei Paesi donatori quanto da parte dei Paesi riceventi, soprattutto se impegnati in lotte contro gruppi ribelli – e la loro strumentalizzazione per fini geopolitici, motivi diplomatici, interessi economici e commerciali o, con più gravi conseguenze, come strumento di repressione

Emblematico è il caso siriano: il presidente Bashar al-Assad, infatti, ha per anni impedito alle organizzazioni e associazioni umanitarie di distribuire aiuti – inclusi cibo e assistenza medica – alla popolazione civile colpita dalla guerra al fine di indebolire l’opposizione, affiancando a questa tattica una strategia militare che mirava a colpire con attacchi armati ospedali, strutture sanitarie e infrastrutture pubbliche, allo scopo di indebolire i ribelli, fino a far perdere loro la volontà o la capacità di combattere, e spingere i civili a cooperare con il governo. 

Allo stesso modo, in Yemen – dove il conflitto civile iniziato nel 2014 ha causato quella che è stata definita dal Segretario Generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres, nel 2018, la peggior crisi umanitaria al mondo – gli aiuti indirizzati alle popolazioni dei territori controllati dagli Huthi sono stati variamente bloccati dalla coalizione a guida saudita, sfruttando, come definito dal Gruppo di Esperti delle Nazioni Unite, “la minaccia della fame come arma di guerra”. In Yemen, a peggiorare ulteriormente la situazione, le stesse forze Huthi hanno esacerbato la crisi umanitaria impedendo l’arrivo degli aiuti al fine di condannare pubblicamente l’Arabia Saudita e ottenere supporto alla propria causa dalla comunità internazionale.

Lo stesso sta accadendo in Etiopia: già nei mesi scorsi, il Segretario Generale del Consiglio norvegese per i rifugiati Jan Egeland aveva criticato le autorità etiopi, colpevoli di impedire agli operatori umanitari l’accesso alle vittime del conflitto, e dichiarato di aver raramente visto un tale impedimento alla risposta umanitaria in quarant’anni di carriera nel campo, mentre l’OCHA ha parlato di un aumento degli episodi di diniego di movimento ai mezzi di soccorso e di confisca di veicoli e forniture umanitari da parte delle parti in conflitto e denunciato impedimenti, da parte delle forze armate, all’accesso agli aiuti umanitari per i civili nel Tigray, dove la maggior parte delle zone rurali sono rimaste isolate e prive di elettricità, con ripercussioni sull’accesso ai servizi sanitari, all’approvvigionamento idrico e all’assistenza vitale.

Le denunce contro le autorità governative, arrivate da più parti, circa l’impedimento all’arrivo degli aiuti hanno fatto emergere tensioni tra il Paese e la comunità internazionale. L’Unione Europea ha condannato l’uso degli aiuti umanitari come strumento di guerra – ricordando come ciò, oltre a rappresentare una grave violazione del diritto umanitario internazionale, metta in grave pericolo la vita di milioni di persone – e ha ripetutamente chiesto che l’assistenza venga liberamente fornita a tutte le regioni del Paese, citando nuovamente le aree rurali come meritevoli di particolare attenzione, in quanto individuate come quelle maggiormente colpite dalla crisi umanitaria.

Nelle ultime ore, se il governo del Regno Unito ha definito la situazione catastrofica, il presidente americano Joe Biden ha lanciato un appello circa la necessità di garantire immediatamente l’accesso agli aiuti umanitari da parte della popolazione per evitare una carestia diffusa, insieme alla richiesta rivolta agli eserciti etiope e eritreo di ritirarsi dalla regione, ulteriormente indebolendo i rapporti diplomatici tra Washington e Addis Abeba.

Il rifiuto del governo etiope di avviare dei negoziati con il TPLF –  definitaun’organizzazione terroristica dalle autorità del Paese – impedisce un miglioramento della situazione sul campo, dove gli effetti combinati del conflitto armato e della strumentalizzazione degli aiuti umanitari, con conseguenti limitazioni all’accesso agli alimenti, rischiano di causare un esponenziale peggioramento della crisi nella già fragile regione. Il Sottosegretario Generale delle Nazioni Unite per gli Affari Umanitari Mark Lowcock, nei giorni scorsi, ha parlato del rischio di carestia nei prossimi due mesi, vista l’insicurezza alimentare in aumento, con la perdita di oltre il 90% dei raccolti e il furto dell’80% del bestiame.

Un passo avanti potrebbe essere rappresentato dall’inclusione dell’uso strategico della fame – già proibito come strumento di guerra dalle Convenzioni di Ginevra, lo Statuto di Roma e la Risoluzione 2417 del Consiglio di sicurezza dell’ONU – tra i crimini contro l’umanità, il che potrebbe costituire una garanzia di rispetto del diritto umanitario internazionale e di prosecuzione verso gli autori di tale crimine.

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