Secondo il rapporto “PMA2020 Abortion Survey Result: Nigeria”, nel periodo tra il 2017 e il 2018, in Nigeria sarebbero stati praticati oltre 2,7 milioni di aborti.
Un numero impressionante soprattutto se si considera che corrisponde a circa 33 casi di interruzione di gravidanza ogni 1000 donne, di un’età compresa tra i 15 e i 49 anni. Si stima che sei aborti su dieci sarebbero avvenuti in strutture non autorizzate, o in abitazioni private, e che nell’11% dei casi siano stati all’origine di gravi complicazioni.
Dal report emerge che il fenomeno è frequente soprattutto nelle zone rurali e interessa, con una maggiore incidenza, le donne con gravi disagi economici e un basso livello di istruzione.
Il problema degli aborti clandestini, oltre a mettere a rischio la sicurezza delle donne nigeriane, si pone come un’emergenza sanitaria. Le strutture ospedaliere si trovano infatti spesso a dover fronteggiare le complicazioni post-aborto; assistenza che riguarderebbe addirittura il 92% tra quelle fornite negli ospedali pubblici.
Le ragioni sono da ricercare nella legge nigeriana che pur non vietando l’aborto, riduce la possibilità di accedervi esclusivamente al caso in cui la vita della donna sia gravemente minacciata. Questa regola trova la sua origine nella giurisprudenza coloniale ed è regolamentato da due codici penali differenti. Il sistema penale nigeriano infatti è regolato dal Criminal code for the Southern States of Nigeria e il Penal Code for the Northern States.
Il primo, vigente nella zona meridionale del Paese, prevede la detenzione, fino a 7 anni, per le donne che si sono sottoposte all’aborto in quanto “colpevoli di aver commesso un crimine”. La legge inoltre prevede la detenzione di 3 anni per “chiunque abbia procurato alla paziente strumenti finalizzati all’aborto”, fino ad un massimo di 14 anni nel caso in cui l’accusato abbia eseguito direttamente l’interruzione di gravidanza della donna (artt.228-230).
Il Codice penale della zona settentrionale si pone in modo ancora più rigido. Gli artt. 232-236 infatti definiscono l’aborto un omicidio colposo e prevedono la detenzione, anche a vita, “per chiunque abbia causato la morte del nascituro”.
Questo sistema doppio si colloca all’interno di una struttura giuridica particolarmente complessa. Il sistema giuridico nigeriano infatti è il risultato della combinazione tra common law, diritto consuetudinario e shari’a, quest’ultima particolarmente presente nel Nord del Paese. Ne deriva una miscela di leggi che operano all’interno dello stesso sistema e che favoriscono un frequente conflitto tra leggi statali e norme locali.
Questa frammentazione ha finito per produrre un impatto negativo sul piano dei diritti fondamentali e sui diritti delle donne che, invece, sono riconosciuti dalla Costituzione del 1999. La mancanza di una riforma in grado di affrontare il tema dei diritti riproduttivi alimenta un vero e proprio vuoto legislativo che obbliga le donne a ricorrere a mezzi illegali, mettendo a rischio la propria vita.
Secondo una recente ricerca “Inequities in the incidence and safety of abortion in Nigeria” ogni anno sarebbero oltre 6.000 i decessi collegati a casi di aborti clandestini nel Paese.Un’emergenza che non può essere ignorata e che lascia scorgere il solito conflitto tra etica, morale e diritto, che trascende i confini nigeriani e che si nasconde dietro l’ipocrisia del “se non lo vedo non esiste”.