Dopo un anno di forte instabilità economico finanziaria, per Ankara arriva una buona notizia dal Fondo Monetario Internazionale: crescita prevista al 6% (+1% rispetto le precedenti previsioni). Cosa significa per le relazioni internazionali e regionali?
Il 25 gennaio una “buona notizia” ha investito Ankara, dopo un anno di forte instabilità economica: il Fondo Monetario Internazionale prevede una crescita dell’economia turca del 6%, nel 2021, e dal 2022, un assestamento al 3,5% annuo.
La precedente previsione del FMI dava una crescita del 5%. Il leggero cambiamento positivo è dato da tre fattori chiave: anzitutto le misure positive adottate dal governo, motivate non solo dagli effetti economici del COVID, la ripresa dei principali partner economici e, in ultimo, l’inizio della campagna vaccinale.
Riguardo le misure politico-economiche adottate da Erdoğan nel terzo quarto del 2020, dati i trendeconomici negativi, la svalutazione della lira e il tasso d’inflazione troppo alto, il Presidente ha optato per la rimozione del governatore della Banca Centrale turca, Murat Uysal, a favore del già Ministro delle Finanze, Naci Ağbal, seguito dalle dimensioni dell’allora Ministro delle Finanze, e genero di Erdoğan, Berat Albayrak. Un cambio radicale, dunque, al timone dell’economia turca. Nel periodo successivo, si è proceduti al graduale rialzo dei tassi d’interesse, che potrebbe abbassare in conseguenza l’inflazione ormai al 12%. Contemporaneamente, gli stimoli fiscali ed economici introdotti come risposta alla crisi del Coronavirus hanno permesso all’economia di non chiudere in maniera troppo negativa il 2020 – momentum riconosciuto dallo stesso FMI.
La stabilità economico-finanziaria è cruciale per la tenuta del Governo di Erdoğan, che punta proprio sulla produttività del Paese, da un lato, e sull’immagine del Paese, dall’altro. Le due cose, si intende, per il Presidente sono necessariamente integrate e l’una funzionale all’altra.
V’è da specificare che certamente il ridimensionamento della politica estera di Ankara è stato influenzato anche dall’andamento economico negativo dell’ultimo anno – che, ribadiamo, non è stato scatenato solo dal COVID-19 economico. Per sostenere una guerra – per quanto non sia combattuta fisicamente sul campo – un Paese deve necessariamente poter contare su una resa economica stabile, dato che manca all’economia di Ankara. Così come è strettamente necessario poter contare su validi alleati, e non solo soci di convenienza – altro fattore mancante, per la Repubblica turca.
Nel 2021 è quindi possibile che la Turchia tenterà di ricucire i legami sgretolati con l’Unione Europeaed altri attori regionali ed internazionali, senza ovviamente venir meno all’identità forte che ha sempre caratterizzato la politica di Erdoğan – che cederà poco, su alcune questioni, pur abbassando i toni. E ciò significa riavvicinare, in qualche modo, anche gli Stati Uniti di Joe Biden, che non nutre certo simpatia per il Presidente turco. Cruciale, a tal riguardo, è la progressiva – e già avviata con modalità epistolare – riappacificazione (di circostanza, ovviamente) con Parigi, la prima Nazione europea chiamata ufficialmente da Biden subito dopo l’insediamento.
Oltre il minuzioso lavoro esterno, che impegnerà parecchio Ankara, bisognerà lavorare anche internamente, all’economia del Paese, rivedendo magari alcuni paradigmi che hanno, nel corso degli anni, avvelenato i diversi fattori economico-finanziari. Il FMI, in ciò, offre degli avvertimenti, che effettivamente sottolineano le fragilità del sistema: anzitutto, l’altissimo bisogno di finanziamento esteroche, combinato alle basse riserve di valuta estera – ed altre variabili micro e macro-economiche – rendono la Turchia troppo vulnerabile a possibili shock economici.