A distanza di dieci anni dalla rivoluzione dei gelsomini che ha portato, nel 2011, alla fine del regime di Ben Alì, la rivolta torna a scuotere la Tunisia.
Le proteste sono iniziate nella notte di venerdì 15 gennaio nelle strade di Tunisi e di altre città del Paese, come Kasserine, Gafsa, Sousse e Monastir, e hanno visto la partecipazione soprattutto di giovani e adolescenti.
Secondo quanto dichiarato dal portavoce del Ministero dell’interno, Khaled Al-Hayouni, i manifestanti, di un’età compresa tra 15 e i 25 anni, avrebbero bloccato le strade attraverso l’uso di barricate e di pneumatici bruciati, inoltre, avrebbero tentato di entrare nei negozi danneggiando diverse proprietà.
Stando alle dichiarazioni le forze dell’ordine sarebbero intervenute per sedare le proteste utilizzando gas lacrimogeni e cannoni d’acqua. Le persone arrestate attualmente risultano 632, di cui molti sarebbero minorenni. Le ragioni che stanno alla base delle manifestazioni sono diverse ma è possibile tracciarne una mappa. La goccia scatenante potrebbe essere l’annuncio del Governo, diffuso giovedì, di introdurre nuove restrizioni per arginare la diffusione del Covid-19.
Questo ha probabilmente accentuato l’esasperazione della maggior parte della popolazione che, a causa delle misure restrittive, ha perso il lavoro o si è trovata in difficoltà. La pandemia infatti ha drasticamente peggiorato le condizioni economiche del Paese influenzando l’andamento di tutti i settori strategici e in particolare di quello turistico, una delle voci più importanti del PIL tunisino.
Un altro elemento che ha alimentato le tensioni è il malcontento generale della popolazione in ogni caso antecedente alla pandemia. Dal 2011 ad oggi, infatti, il Paese vive in una situazione economica-sociale stagnante. Il Presidente Kais Saied, su cui vi erano molte aspettative, non è riuscito a mantenere le promesse della campagna elettorale per diversi motivi, tra cui una struttura istituzionale incompleta e un sistema economico sull’orlo della bancarotta.
Tra i problemi principali emerge quello dell’occupazione, le proteste infatti sono state accompagnate da cartelli con la scritta “L’occupazione è un diritto, non un favore”. Secondo i dati dell’Istituto nazionale di statistica tunisino la disoccupazione, nel 2020, ha registrato un tasso del 18%. Confrontando questi dati con quelli del 2011 emerge una situazione immobile con una lieve flessione verso il basso tra il 2015 e il 2017, anni in cui il Paese stava godendo della maggiore percezione di affidabilità e sicurezza in seguito al processo di transizione democratica.
Su questo piano infatti la Tunisia resta forse l’unico Paese che è riuscito ad avviare un vero e proprio processo di transizione verso un sistema più democratico. Tuttavia sono ancora molti gli aspetti che continuano a ritardarne la piena implementazione, tra questi: la debolezza delle strutture istituzionali; la mancanza della Corte costituzionale, progetto che non è mai stato portato al termine; un sistema economico schiacciato dalla crisi. Elementi che hanno fatto sprofondare il Paese in una fase di stallo ma con cui adesso deve necessariamente fare i conti.