Libano ed Israele, due prodotti dell’ingerenza internazionale e dell’instabilità regionale. L’instabilità interna del Libano può essere dipesa in misura maggiore dalle tensioni regionali, piuttosto che dalla struttura istituzionale? La ricchezza e la protezione internazionale bastano a garantire la stabilità per Israele?
Quanto le condizioni micro-regionali influenzano la costituzione e la resilienza di uno Stato? E quanto può resistere uno Stato, per quanto forte e prospero, sotto i colpi di una situazione regionale in forte tensione?La risposta è logicamente ovvia: quello Stato può fare ben poco per raggiungere l’agognato equilibrio interno, soprattutto se la sua storia – anche recente – è stata condizionata da forti ingerenze esterne. Le tensioni regionali, in effetti, logorano le capacità progettuali di uno Stato, proiettandosi internamente e incancrenendo i vulnera già presenti nella società domestica.
Fabio Mini (2017) afferma che “una situazione di continua tensione […] potrebbe degenerare in ogni momento”. La frase precedente quella appena citata riguardava la definizione propria di guerra perpetua, intesa come “il perdurante stato di guerra senza chiare condizioni perché finisca”.
Quanto di appena accennato può applicarsi allo Stato del Libano e allo Stato d’Israele?
Sappiamo che la società e la politica libanese vivono oggi una condizione di strutturale precarietà. Ciò che maggiormente viene criticato e biasimato è la composizione confessionale delle sue strutture istituzionali.
Eppure, in un’ottica maggiormente allargata, soprattutto alle sfide politiche di una regione così ricca e così bistrattata come quella del Levante, la politica interna di impronta confessionale non è che solo una minima parte dei problemi.
I futuri Governi libanesi sono destinati a durare poco, non tanto per la struttura confessionale, ma per il clima di tensioni crescenti a livello regionale. Un segnale ulteriore di ciò sono le denunce del Libano all’ONU delle ripetute violazioni dello spazio aereo e territoriale libanese da parte dello Stato d’Israele. Nel corso degli ultimi anni, infatti, Tel Aviv si è macchiata più volte di tale violazione, con l’obiettivo di strike aerei nel sud della Siria e per il monitoraggio – a detta del Governo e degli ufficiali israeliani – delle attività terroristiche di Hezbollah in Libano e in Siria, ravvivatesi negli ultimi mesi anche grazie al contributo dell’Iran.
Sulla scia delle crescenti preoccupazioni, il 9 gennaio 2021 alcuni militari israeliani hanno arrestato al confine un cittadino libanese, un pastore, ritenendolo un affiliato al movimento terroristico del “Partito di Dio” (Hezbollah). Non è la prima volta, anche in questo caso, che Israele procede ad arresti indiscriminati. La zona dell’arresto, Kfar Shuba, è sì al confine – la cosiddetta Linea Blu – ma è anche zona di pascolo per le numerose fattorie lì presenti.
Per Israele, le condizioni di precarietà interna costituiscono un fattore di inquietudine: Tel Aviv dovrà affrontare il quarto turno elettorale in due anni. Inoltre, la svolta degli Stati Uniti non rassicura Netanyahu, ma certamente non fa cadere le certezze di Israele, che può contare su un solido – e proficuo – legame con il Paese Nord-Americano.
Eppure, per tornare alle domande che hanno aperto il presente scritto – ovvero, quanto resiliente possa essere uno Stato circondato di tensioni regionali – Israele è il chiaro esempio che non bastano ricchezze, tecnologie, e protezione internazionale per godere di stabilità. La sua crescente instabilità politica è certamente determinata dalle tensioni regionali che hanno, di fatto, spaccato le diverse espressioni politiche e la società civile.
A lungo andare, infatti, i processi di cambiamento logorano i sistemi di certezza politica, e prima o poi si arriva a dover fare i conti con la storia, non certo clemente, e studiare un nuovo equilibrio, necessariamente regionale, con nuove e più variabili da tenere in considerazione.