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La minaccia jihadista in Mozambico riguarda principalmente l’area della provincia di Cabo Delgado nel nord del Paese, anche detta la nuova El Dorado. Essa si ripercuote sia sulla stabilità del Paese, sia sulla stabilità regionale poiché è una minaccia che per sua struttura non agisce all’interno di confini prestabiliti, ma tende ad espandersi insidiandosi laddove vi siano specifiche caratteristiche del territorio e della popolazione. Quando si parla di terrorismo jihadista, si tende a definirlo una minaccia globale perché potenzialmente può attecchire ovunque, sia perché in ogni Stato esistono fasce della popolazione povere e oppresse che possono facilmente aderire alla causa, sia perché è un fenomeno in grado di adattarsi molto velocemente ai nuovi contesti, sfruttandone le specificità per rafforzarsi.
Già a metà novembre l’Onu aveva chiesto al Governo di mettere in atto misure per proteggere i civili, ma anche per affrontare la questione degli sfollati che scappano anche via mare, spesso morendo durante le traversate. Non solo, l’Onu ha chiesto chiarimenti anche riguardanti la violazione dei diritti umani da parte dell’esercito mozambicano.
La risposta del Governo alla minaccia sul territorio
La risposta del Governo di fronte alla minaccia jihadista è stata, fin dall’inizio, il pugno di ferro con attacchi a moschee e popolazione islamica sospettata di essere affiliata ad Al-Shabaab. Allo stesso tempo, di fronte alle opportunità economiche derivanti dalla presenza di multinazionali francesi, americane (Anadarko) e italiane (Eni), a volte tende a minimizzare la pericolosità della situazione regionale accusando semplici gruppi di giovani dei disordini, altre volte dichiara che l’instabilità regionale derivi dalla presenza dei terroristi sul territorio. Questa seconda via sembra quasi il tentativo di incentivare i Governi stranieri ad intervenire per difendere i propri interessi economici, ponendoli di fronte alla possibilità che gruppi jihadisti, che minacciano allo stesso modo l’Occidente, possano arricchirsi grazie al gas e al petrolio del Mozambico.
Oltre alle risorse di cui dispongono le cellule affiliate ad Al-Quaeda e all’Isis, la facile diffusione di Al-Shabaab sul territorio è dipesa anche dall’incapacità del Governo di Maputo di mettere in atto politiche economiche e sociali che salvaguardassero le fasce più povere della popolazione e che garantissero loro un guadagno dallo sfruttamento delle risorse naturali. I problemi però sono più di uno. Innanzitutto, le multinazionali straniere che sfruttano le risorse del territorio non reinvestono i propri profitti nello sviluppo del Mozambico.
Ciò significa che, la popolazione di uno Stato che dispone di numerose ricchezze non ne trae alcun guadagno a lungo termine. Secondariamente la stessa popolazione non trae guadagni immediati perché la manodopera impiegata è per lo più originaria dello Zimbabwe in quanto meno costosa. Un terzo problema è che le élites politiche mantengono il potere grazie all’appoggio delle élites economiche di cui devono soddisfare gli interessi, a discapito delle fasce della popolazione più bisognose. La popolazione scontenta è facilmente convincibile da chi promette migliori condizioni di vita.
L’effetto del terrorismo in uno Stato limitrofo
Al-Shabaab ha disposto basi volte all’organizzazione degli aspetti logistici nel sud della Tanzania, al confine con il Mozambico. Spesso le cellule terroristiche hanno basi al di là dei confini degli Stati dove agiscono creando così nuovi territori di reclutamento. Sebbene la Tanzania sia considerata un Paese stabile e partner dell’Occidente nella lotta al terrorismo e sebbene non sia nel mirino dei jihadisti poiché non aveva partecipato alla missione di controterrorismo dell’Unione Africana in Somalia, ciò non la esula dall’essere un possibile territorio di reclutamento. Nonostante le differenze tra cristiani e musulmani fossero state appianate già durante il periodo socialista, poiché la riduzione delle diversità aveva il fine di unire la popolazione per un progetto più grande, i terroristi fanno leva sulla minoranza islamica introducendo concetti come diritti violati o negati e soprusi subiti. La situazione economica della Tanzania è migliore rispetto a quella del Mozambico, ma la presenza di materie prime e il simile passato coloniale e postcoloniale la espone agli stessi rischi. La Tanzania non è minacciata solo dalle cellule terroristiche al confine con il Mozambico, ma anche da quelle al confine con il Kenya. Inoltre, il Governo di Magufuli ha negato, di fronte a massacri nel sud del Paese, il coinvolgimento dei jihadisti. Questa strategia impedisce alla popolazione di essere informata sui fatti e di comprendere i reali pericoli derivanti dall’espansione delle cellule terroristiche e favorisce così le operazioni di reclutamento di Al-Shabaab.
Una strategia a livello globale
Se l’uso della forza e il controterrorismo non hanno frenato la minaccia jihadista, che nei decenni si è espansa sempre più a livello globale, viene ipotizzato che una strategia di contro insurrezione possa essere più efficace[1]. Questo perché lo scopo del movimento jihadista è quello di ribaltare l’ordine sociale e politico di un Paese, sostituendosi al Governo nel comando di esso e i suoi adepti sono paragonati a degli insorti.
A differenza del controterrorismo, non si arrestano gli insorti, ma si eliminano le cause dell’insurrezione. Allo stesso tempo, si tagliano gli input che arrivano alle singole cellule terroristiche (come donazioni), che trasformano poi in output che le rendano più forti. Sebbene sia un fenomeno globale, il jihadismo non ha una struttura gerarchica, questo significa che qualora venisse eliminata una cellula le altre sopravviverebbero tranquillamente. Per questo risulta inefficace l’arresto dei singoli. Se la minaccia è globale sembra quasi scontato che la risposta debba essere coordinata a livello mondiale e che ogni Governo debba aderire alla medesima strategia, prima di essere soppiantato dalle cellule terroristiche all’interno del proprio Stato.
Ma dietro alla volontà dei Paesi di mostrarsi attivi nella lotta al terrorismo, poiché presentarsi come tali pone in una posizione contrattuale migliore a livello internazionale, entrano in gioco interessi economici che hanno la capacità, come sempre, di porre in secondo piano valori etici e morali.
Un esempio calzante è proprio il Mozambico: il Governo locale agisce con il fine di mantenere le relazioni con le multinazionali straniere per trarre vantaggio dall’estrazione del petrolio, dei rubini e del gas (quest’ultima inizierà nel 2022). I Governi stranieri parlano apertamente di lotta al terrorismo, ma per interessi economici propri non impediscono al Governo del Mozambico di utilizzare misure repressive fini a loro stesse e contro i civili, che determinano così una spinta della popolazione verso i terroristi.
Una possibile strategia globale si trasforma, sul singolo territorio, in misure di tamponamento che non hanno effetti positivi di lungo periodo o su larga scala, ma che, reiterate nel tempo, si limitano a garantire nel breve periodo la continua presenza straniera sul territorio e lo sfruttamento delle risorse, da cui è solo una piccola fascia della popolazione locale a trarre vantaggio.
[1] D.J. Kilcullen, Countering Global Insurgency, Journal of Strategic Studies, Volume 28, Issue 4, 2005.