Il processo di integrazione dei rifugiati nordcoreani al Sud viene spesso messo in secondo piano. Se molti dei nordcoreani passano attraverso la Cina per scappare dal proprio paese d’origine, sperano poi però di andare in Corea del Sud, un paese in cui parlando la lingua, vedono infatti un futuro di integrazione e libertà.
La fuga e il viaggio
Dall’inizio della pandemia la Corea del Nord ha inasprito i controlli alle frontiere, creando delle zone-cuscinetto dove essere trovati senza permesso significa essere fucilati a vista. Nonostante ciò il confine con la Cina è “notoriamente poroso” e nelle regioni limitrofe vi si trova una forte comunità cinese di etnia coreana, pronta spesso ad aiutare i rifugiati, pur conoscendo i rischi che corre. Come Paese, oltre ad essere un partner strategico di Pyongyang, la Cina ha anche il timore che una migrazione di massa possa aumentare l’attenzione internazionale prestata alla questione e possa portare quindi a un collasso del regime nordcoreano; ciò vale anche al contrario, in quanto rimane forte il timore che un crollo del regime possa a sua volta portare ad un ondata di arrivi.
Un tempo la rotta principale era attraverso la Cina fino all’Ambasciata della Repubblica di Corea ad Ulan Bator. La Mongolia ha reso più difficile entrare nel suo paese dalla Cina, e quindi ora la nuova via di fuga è passare dal Laos per poi andare in Thailandia. Passare per il Laos sta diventando sempre più difficile, visto che negli ultimi anni i rapporti tra il Paese e la Corea del Nord si sono notevolmente rafforzati e hanno visto la firma di alcuni accordi bilaterali, nei quali viene trattata molto probabilmente anche la questione del passaggio dei rifugiati dal Laos.
Nonostante ciò, il 20 novembre 8 donne nordcoreane hanno attraversato il fiume Mekong arrivando in Thailandia. Secondo i giornali locali, sono solo 8 delle oltre 200 donne che sarebbero in questo momento nascoste in Laos. Neanche la situazione in Thailandia è ideale, visto che il paese li considera immigrati illegali. Ciò nonostante, visto il miglioramento delle relazioni commerciali tra Corea del Sud e Thailandia, vengono tendenzialmente tenuti in centri di detenzione vicino a Bangkok, dove le autorità sudcoreane possono decidere se accordargli il diritto d’asilo oppure no.
Normalmente coloro che scappano non sono i più poveri ma potremmo identificarli con la classe media, spesso con parenti già scappati al Sud. Questi sono gli stessi parenti che normalmente pagano “il biglietto per il viaggio” alle gang cinesi che li fanno passare attraverso il confine, biglietto che costa di solito tra i 5mila e i 15mila dollari.
Difficoltà all’integrazione: il ruolo dello Stato
“Non possiamo vivere in Corea del Nord a causa della paura, non possiamo vivere in Cina a causa della paura di essere deportati e non possiamo vivere in Corea del Sud a causa dell’ignoranza”, dicono spesso i rifugiati nordcoreani che risiedono al Sud.
Un’interessante ricerca parla delle difficoltà che i nordcoreani incontrano nell’integrarsi in Corea del Sud. L’opinione dei sudcoreani è forse migliorata negli anni; basta vedere il successo del drama Crash Landing On You che racconta della storia d’amore tra una ricca sudcoreana e un ufficiale nordcoreano, che poi (attenzione spoiler!) finisce a vivere ed ad integrarsi con alcuni altri soldati a Seul. Quella che può essere identificata come una vittoria è stata l’elezione di un rifugiato nordcoreano alle elezioni parlamentari, eletto proprio dal distretto di Gangnam, il più ricco della capitale. Non potendo però prendere nè la ricezione positiva di un telefilm né un singolo evento politico come significativi, le informazioni riportate nella ricerca, seppur datate 2014, rimangono in gran parte attendibili per la maggior parte dei soggetti interessati.
Senza entrare nel merito dei procedimenti legali, complicati e in continuo cambiamento, una volta terminati i controlli preventivi, si passa al tentativo di integrare i rifugiati nella società sudcoreana. Lo Stato prevede un programma di riabilitazione fisica e mentale, di insegnamento della cultura sudcoreana e di avviamento al lavoro. Questo programma dura all’incirca 3 mesi. I rifugiati passano questi mesi all’Hanawon, ormai solo la principale delle strutture create dal Ministero dell’Unificazione, non lontano da Seoul, e alla fine diventano ufficialmente cittadini sudcoreani. Gli viene fornito aiuto nella ricerca di un alloggio e un pagamento di 7 milioni di won (poco più di 5mila euro), nonché supporto nella ricerca di un lavoro.
Dopo Hanawon?
Una volta lasciato Hanawon o le altre strutture, i rifugiati dicono di vivere in un perenne stato di supervisione e dipendenza, che i 3 mesi di rieducazione non sono riusciti a risolvere. L’aiuto ricevuto non è abbastanza per riuscire a superare i propri traumi e per riuscire a non preoccuparsi per la propria famiglia rimasta in Cina o in Corea del Nord. Dopo Hanawon, i rifugiati possono comunque richiedere aiuto presso i centri Hana (gestiti da privati per conto del Governo), che offrono un programma intensivo di 3 settimane, volto alla ricerca del lavoro e altre opportunità di formazione.
In una società come quella sudcoreana, dove l’università che hai frequentato determina tutto il tuo futuro, la difficoltà che i rifugiati hanno a trovare un lavoro è enorme. Alla fine delle 3 settimane il centro offre la possibilità di consultazioni regolari per continuare ad aiutarli il più possibile. Nel campo dell’integrazione operano inoltre diverse realtà private, ma riconosciute dallo Stato, che offrono una serie di servizi, non immediatamente necessari, ma ormai importanti per permettere una corretta integrazione dei rifugiati nella società. Servizi come insegnare l’inglese sono diventati di vitale importanza e ONG come Teach North Korean Refugees (TNKR)permettono, tramite la collaborazione di tantissimi volontari, di insegnare l’inglese ai rifugiati e di facilitare uno scambio culturale che vada oltre i confini della penisola coreana.
Se il processo di integrazione per lo Stato si conclude qui, la realtà è ben diversa. 3 mesi non riescono ad eliminare le differenze ormai radicate che esistono tra nord e sudcoreani. Parlare quasi la stessa lingua e appartenere alla stessa etnia ormai valgono ben poco. Non solo i popoli si sono allontanati per ovvie cause sociali e politiche, ma i media di entrambi i paesi non fanno altro che ampliare il divario. Un termine che spesso appare nei giornali, soprattutto quelli in inglese, ma anche nei documenti governativi, è “disertore”, usato quasi in tono dispregiativo. In molti casi, secondo la ricerca, questa negatività proviene dalla generazione più giovane, la generazione che ha meno legami con il Nord e la storia della divisione della penisola.
Non solo, come le altre fasce di età, sono restii ad accettare come concittadini persone che ritengono indottrinate e disposte a ogni cosa, anche illegale, ma sentono che lo stato abbia concesso loro vantaggi eccessivi: i criteri per essere ammessi all’università sono meno severi, possono usufruire più facilmente di borse di studio e viene offerto loro maggior supporto nella ricerca di una lavoro, mentre gli studenti sudcoreani devono lavorare incredibilmente tanto per riuscire ad ottenere un buon risultato dell’esame per entrare all’università, sacrificando la loro adolescenza e spesso la loro salute fisica e mentale.
Nonostante migliaia di anni di storia in comune, l’integrazione al Sud non è poi così facile, e 3 semplici mesi di permanenza ad Hanawon, servono ben poco a preparare i rifugiati a confrontarsi con l’ormai drasticamente diversa e iperattiva società sudcoreana.