Il raggiungimento del controllo su Macallè, da parte delle truppe federali, potrebbe essere un’arma a doppio taglio per il governo etiope, rischiando di incentivare spinte autonomiste nelle altre regioni.
Secondo quanto dichiarato dal primo ministro etiope, Abiy Ahmed, sabato 28 novembre, le truppe federali avrebbero raggiunto il totale controllo di Macallè, capitale della regione del Tigray. Assume contorni sempre più tragici la vicenda che, nell’ultimo mese, ha visto protagonista dello scenario internazionale la regione del nord Etiopia. Nel mese di novembre, infatti, si è assistito ad una graduale escalation di violenza e di terrore che ha decretato i civili quali principali vittime. Il 28 novembre, le forze federali etiopi hanno iniziato l’attacco per la conquista della capitale tigrina, Macallè, nella quale vivono circa 500 mila persone. Appena due giorni prima, il primo ministro etiope aveva, in effetti, annunciato l’avvio della “fase finale” dell’offensiva, alla scadenza dell’ultimatum di 72 ore, concesso ai tigrini, per arrendersi pacificamente.
Una situazione molto complessa, poiché quella che da Ahmed è stata definita “campagna per ripristinare l’ordine” è percepita, piuttosto, come un vero e proprio massacro etnico, dal leader del Fronte popolare di liberazione del Tigrai (TPLF), Debretsion Gebremichael, il quale fa appello alla comunità internazionale affinché intervenga, per interrompere i bombardamenti sui civili, da parte delle forze federali. La resistenza continuerà, per il partito tigrino, che non intende arretrare di fronte a quelle che sono qualificate come “forze di invasione” e non come legittimo governo del Paese. È stata confermata, infatti, dall’ambasciata statunitense ad Asmara, la notizia del lancio di nuovi missili nei pressi di aree residenziali della capitale dell’Eritrea, ad opera del Tigrai.
Il bersaglio di Asmara, già oggetto di bombardamenti nelle scorse settimane, potrebbe avere un duplice scopo: da una parte rappresenterebbe una ritorsione all’offensiva lanciata dalle forze federali di Addis Abeba, lo scorso 4 novembre, ma ancor di più potrebbe essere un abile tentativo di ridestare l’interesse della comunità internazionale. Coinvolgendo l’Eritrea ed infiammando, dunque, la scena nell’intero Corno d’Africa (tra le regioni più instabili dello scenario internazionale), il TPLF dà più ampio respiro ad un conflitto, che altrimenti avrebbe mantenuto i contorni della guerra civile, interna allo stato etiope.
Le ragioni del conflitto
Le tensioni, tra governo federale dell’Etiopia ed il Tigrai, sono esplose violentemente nella notte tra il 3 ed il 4 novembre. A seguito degli attacchi del TPLF contro le forze nazionali di sicurezza etiopi, a Macallè, il primo ministro Ahmed ha ordinato l’avvio dell’operazione militare. “Tradimento e rivolta armata”, l’accusa mossa dal governo centrale al TPLF, tale da giustificare un intervento a salvaguardia dell’unitarietà nazionale. Va detto, però, che non c’è ancora piena chiarezza su chi abbia, nei fatti, dato avvio al conflitto, per via della circostanza che la regione è, al momento, tagliata fuori da mondo. Le comunicazioni sono interrotte, i giornalisti hanno enormi difficoltà di accedere al Paese e, tra smentite e silenzi da parte degli attori coinvolti, sembra sempre più difficile verificare la veridicità delle notizie.
Quello che è certo è che il conflitto non lascia del tutto spiazzata la comunità internazionale; erano piuttosto alte le probabilità che la miccia, stuzzicata dall’elezione di Abiy Ahmed del 2018, prendesse fuoco. Il nuovo presidente etiope ha, infatti, commesso alcuni passi falsi che hanno fomentato le ire della minoranza tigrina. Per comprendere a pieno il conflitto dobbiamo ricordare che lo stato etiope, secondo Paese per numero di abitanti del continente africano ed il più popolato del Corno d’Africa, ospita al suo interno 80 diverse etnie. La multietnicità, infatti, è il principio alla base della sua amministrazione, ragion per cui, a partire dal 1996, si è scelto di suddividere il territorio in 9 Stati regionali, ciascuno in base all’etnia maggiormente presente. Il gruppo etnico più numeroso è quello degli Oromo (34%), seguito dagli Amhara (27%), Somali (6%) ed i Tigrini (5%).
Nonostante quella dei tigrini sia una minoranza, va ricordato che la regione del Tigrai è rappresentata politicamente dal TPLF, per anni uno degli attori dominanti della coalizione del governo etiope. Tuttavia l’elezione del nuovo primo ministro ha sparigliato le carte. L’intento del leader etiope è stato, fin da subito, quello di rendere più unitario il modello amministrativo, cercando di allontanarsi gradualmente dal nazionalismo etnico, consapevole di quanto si tratti di un’arma sicuramente a doppio taglio perché, seppure finalizzata a garantire la sopravvivenza di diverse comunità etnico-culturali, al contempo rischia di dare troppo potere in mano ai partiti regionali, portavoce delle esigenze delle comunità locali. Insomma, il rischio che venti secessionisti si diffondessero per tutto il territorio nazionale ha messo in allarme il primo ministro etiope, causando al contempo una certa tensione tra i gruppi etnici, intimoriti dal fatto di poter perdere la propria autonomia ed ha inasprito la già critica situazione tra governo centrale e TPLF, accusato di corruzione e marginalizzato.
Nel clima già caldo di proteste, il rinvio, a causa del Covid-19, delle elezioni che si sarebbero dovute tenere il 31 marzo, ha fatto salire ulteriormente la tensione; Ahmed ha attirato su di sé l’accusa di occupare illegittimamente la poltrona e di attentare, di fatto, all’identità regionale. Il Tigrai, contravvenendo al divieto federale, ha ugualmente indetto le elezioni, delle quali con il 98% è risultato vincitore il TPLF. Il voto del 9 settembre non fa altro che confermare quanto l’amministrazione del Tigrai sia un’entità indipendente dall’esecutivo federale. Un risultato dal sapore prettamente politico, il diritto all’autodeterminazione delle comunità etiopiche, sancito dalla stessa costituzione federale all’articolo 39 e rivendicato da tempo, sembra essere al centro della scelta elettorale. Insomma, si ventilava l’ipotesi di una secessione, troppo rischiosa per lo stato etiope.
La crisi umanitaria
Lasciano esterrefatti le testimonianze dei civili, costretti alla fuga, tra centinaia di corpi senza vita per le strade. I fuggitivi lo hanno descritto come un vero e proprio massacro, a colpi di machete, coltelli, fucili e corde usate per strangolare brutalmente chiunque fosse tigrino. Immagini simili, nelle modalità, a quelle testimoniate dai civili di Mai-Kadra, anche se a parti invertite. Secondo i racconti dei civili, in quel caso si sarebbe trattato di un gruppo di tigrini, sostenuto dalla polizia locale, che avrebbe portato avanti un “raid porta a porta”, con lo scopo di identificare ed uccidere cittadini di etnia Amhara. L’accusa attualmente non è stata confermata dal TPLF.
Allo stato delle informazioni, non è possibile comprendere se effettivamente si possa dar credito a quanto affermato dall’amministrazione del Tigrai e parlare di pulizia etnica, contro i cittadini tigrini, seppure non possono essere taciuti episodi di soprusi, violenze ed una forte ostilità etnica nei loro confronti. Il grave problema che emerge è quello dei profughi che hanno valicato i confini etiopi, per raggiungere il Sudan ed essere accolti in appositi centri. Dagli inizi di novembre, sono oltre 14.500 i minori, le donne e gli uomini fuggiti, secondo l’Agenzia per i Rifugiati delle Nazioni Unite. Gli altissimi numeri rendono complessa la gestione degli aiuti e dell’assistenza da fornire ai rifugiati, tanto da richiedere un intervento su larga scala.
Stanno divenendo sempre più complesse le condizioni di vita ed operative nel Tigrai, considerando il fatto che si registrano frequenti interruzioni di corrente e che i rifornimenti di carburante e cibo cominciano a scarseggiare. La condivisione di informazioni è quasi del tutto impedita dal fatto che ogni canale comunicativo è stato interrotto. I volti di bambini, esausti ed impauriti, sono la attuale fotografia del dramma e dell’incertezza vissuti dalla popolazione. In considerazione dell’aumento esponenziale dei profughi (oltre 4.000 persone, in un solo giorno, hanno superato i confini), il governo ha previsto l’allestimento di un campo rifugiati a Um Rakuba, a 80 km dalla frontiera, con la capacità di accoglienza per almeno 20.000 persone.
La situazione appare, quanto mai, incerta. Si vanifica, così, quel progetto di stabilità avviatosi nel Corno d’Africa, dopo decenni di tensioni, grazie alla storica pace siglata tra Etiopia ed Eritrea, su iniziativa del leader etiope, tanto da valergli il Premio Nobel per la Pace nel 2019. Eppure, questa volta Ahmed si è dimostrato inflessibile, rispedendo al mittente qualsiasi invito alla mediazione ed al dialogo, lasciando ben comprendere quanto sia importante il suo disegno di un’Etiopia unitaria, più che umanitaria. D’altro canto, l’interesse alla stabilizzazione dell’Etiopia coinvolge anche i Paesi del Golfo (principali mediatori della pace etiope-eritrea), tanto per ragioni economiche, quanto per riuscire a controbilanciare la presenza turca in Somalia.
Seppure il primo ministro etiope abbia rivendicato il pieno controllo della regione del Tigrai, il TPLF non accenna ad accettare la sconfitta e si prospetta la possibilità di una guerriglia contro il governo federale. Il rischio è che questo piano di repressione della ribellione tigrina sia percepito come dannoso dalle altre comunità etniche e che Ahmed si possa ritrovare a dover fronteggiare spinte autonomiste anche nelle regioni di Oromia, del Somali e dell’Ahmara. Oltretutto, l’inaspettato prolungarsi del conflitto, che avrebbe dovuto risolversi in una guerra lampo, sta indebolendo l’economia etiope, causando la fuga degli investitori internazionali e prospettando un brusco calo del Pil.