UNA NUOVA FLOTTA STATUNITENSE NELL’INDO-PACIFICO?

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Un’eventuale nuova flotta statunitense nella regione degli Stretti avrebbe conseguenze strategiche dirompenti: ma quante sono le reali possibilità che questa venga realizzata e che raggiunga l’obiettivo prefissato?

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Negli scorsi giorni, il Segretario alla Marina statunitense Kenneth Braithwaite ha avanzato la proposta di creare un nuovo comando, andando a creare quella che sarebbe la “Prima Flotta”. L’area di responsabilità di tale comando dovrebbe essere l’Indo-Pacifico, per cui l’eventuale sede si dovrebbe trovare nella regione degli stretti di Malacca e Lombok, “all’incrocio tra i due Oceani”, come dichiarato dal Segretario. La nuova flotta sarebbe pensata per bilanciare la politica estera aggressiva di Pechino e dovrebbe alleggerire i compiti della Settima, la cui area di responsabilità si estende nello spazio tra la linea di cambio di data internazionale e il confine tra Pakistan e India.

L’ipotetica Prima Flotta potrebbe avere la sua base a Singapore, come ipotizzato da Braithwaite. Oltre ad aumentare massicciamente la presenza statunitense nella regione, anche la sua sola istituzione sarebbe un durissimo colpo per la Cina: l’approvvigionamento energetico e il commercio del Paese dipendono dalla libertà di transito negli Stretti, ragion per cui la presenza stabile americana in un’area così vitale potrebbe avere conseguenze nefaste per Pechino in caso di conflitto tra i due Paesi. Secondo l’analista cinese Song Zhongping, la creazione dell’eventuale Prima Flotta equivarrebbe a “prendere la Cina per il collo”, considerando che l’Oceano Indiano è vitale per le strategie cinesi e per lo sviluppo della Belt and Road. Il governo di Pechino ha risposto prontamente, sostenendo che la “minaccia cinese” alla base delle azioni statunitensi non sia altro che una scusa per poter incrementare ulteriormente le spese militari.

Per quanto possa sembrare una mossa decisiva, è in realtà molto improbabile che si arrivi alla creazione della suddetta flotta. Il primo ostacolo è ovviamente di tipo economico, poiché sarebbero necessari nuovi assetti e un gran numero di personale ad hoc: comporre la flotta con personale e mezzi in transito da altri comandi significherebbe minare l’efficienza di queste ultime e non rappresenta un’opzione valida. L’aumento di tonnellaggio complessivo della Marina statunitense sarebbe quindi un requisito praticamente fondamentale.

Nonostante le dichiarazioni di Braithwaite, la Marina ha dichiarato che nessun tipo di decisione è ancora stata presae contestualmente anche Singapore nega di aver preso accordi di questo genere con Washington. La città-stato sullo Stretto di Malacca ha inoltre ottimi motivi per non concedere questa possibilità agli USA, data la sua politica di equidistanza tra Pechino e Washington. Un altro Paese candidato potrebbe essere l’Australia, ma anch’esso probabilmente rifiuterebbe per motivi molto simili. Come emerge dagli ultimi documenti programmatici, Canberra ha in programma una politica estera e di difesa in linea con le necessità americane, ma si prefigge un livello di proattività militare che sarebbe impossibile da raggiungere ospitando il quartier generale di un comando così importante.

L’India, pur non essendo tra i Paesi candidati ad ospitare la base, sarebbe il Paese che otterrebbe i maggiori benefici da una massiccia presenza statunitense nell’area degli Stretti. La competizione con la Cina è in recrudescenza, sottolineata anche dagli scontri di inizio 2020 lungo il confine himalayano, e così come gli USA anche l’India ha la necessità di contenere l’ascesa cinese e la sua penetrazione nell’Oceano Indiano. Tutto ciò deve però avvenire senza che l’India perda il ruolo di maggior security provider dell’area, fondamentale per le ambizioni di indipendenza strategica di New Delhi.

L’idea ha generato scetticismo anche sul suolo patrio, con diversi commentatori che hanno sottolineato l’elevato costo dell’operazione, oltre al fatto che Braithwaite molto probabilmente non verrà confermato nel suo ruolo dopo l’insediamento della nuova amministrazione Biden alla Casa Bianca. Venendo meno quello che per ora sembra il maggiore promotore, potrebbe venir meno anche la volontà politica di procedere in questa direzione. Inoltre, un annuncio pubblico di questa portata, non discusso preventivamente con i Paesi alleati, rischia di generare l’effetto contrario e di rendere impossibile l’ottenimento del supporto necessario da parte dei Paesi della regione.

In conclusione, è molto probabile che non ci sarà, almeno nel breve periodo, una nuova struttura di comando navale statunitense nella regione dell’Indo-Pacifico. Oltre alle motivazioni economiche, la ragione principale è da trovarsi nella mancanza di disponibilità tra i Paesi dell’area, il cui interesse nel contenimento della Cina è tanto innegabile quanto bilanciato dalla necessità di mantenere un rapporto sereno con Pechino. Il dispiegamento di una nuova flotta, pur essendo pensato per difendere la pax americana nel Pacifico e garantire la stabilità della regione, rischia di innescare una spiralizzazione negativa del conflitto fino all’end state diametralmente opposto a quello ipotizzato, ossia il conflitto aperto con la Cina. Ne emerge che il solo annuncio dell’intenzione sottolinea ancora di più la difficoltà statunitense di elaborare una strategia convincente nella regione, una tendenza dell’ultimo decennio che prescinde dalle scelte e dallo stile caotico della politica estera formulata dall’amministrazione Trump per l’area dell’Indo-Pacifico.

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Nato nel 1992 in Sardegna, consegue la laurea triennale in Scienze Politiche presso l’Università di Cagliari, per poi proseguire gli studi in Relazioni Internazionali Comparate presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia, laureandosi con una tesi sulla dottrina militare maoista. In mezzo, un’esperienza di quattro mesi presso la Capital Normal University di Pechino e un crescente interesse per tematiche riguardanti l’Asia-Pacifico, la strategia militare e la marittimità. Nel 2019 consegue il master in Studi Strategici e Sicurezza Internazionale presso l’Istituto di Studi Militari Marittimi di Venezia, dove frequenta il 78° Corso Normale di Stato Maggiore per ufficiali della Marina Militare. Continua a collaborare con l’Istituto, principalmente per convegni e incontri all’Arsenale di Venezia e partecipando in veste di tutor alle esercitazioni di Pianificazione Operativa. Attualmente vive a Venezia ed è membro dello IARI, redazione Asia-Oceania, dove si occupa principalmente del Giappone. È inoltre membro del CeSMar (Centro Studi di Geopolitica e Strategia Marittima), think-tank affiliato alla Marina, e ha pubblicato analisi e approfondimenti per altre testate online.

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