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Il primo discorso alla Knesset dell’avvocato Tehila Friedman è dirompente e commuove i legislatori. La nuova parlamentare proveniente dalle file dell’alleanza centrista Blu e Bianco immagina uno Stato d’Israele in cui ci sia posto per tutti.
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È dell’11 agosto scorso il sermone inaugurale del nuovo membro della Knesset Tehila Friedman, avvocato gerosolimitano da poco entrato in Parlamento con l’alleanza politica centrista di Benny Gantz, il Kahol-Lavan (Blu e Bianco). È consuetudine che ogni nuovo deputato al Parlamento israeliano tenga un discorso di presentazione in cui rende note le proprie convinzioni e aspirazioni, dilungandosi in ringraziamenti a familiari e ispiratori. L’intervento della nuova parlamentare, invece, è breve (di soli 11 minuti), conciso e tagliente, e raggiunge in pochissimo tempo migliaia di visualizzazioni in Israele e all’estero. Le sue parole soppesate rispondono al periodo di profonda crisi e stallo che da molto tempo affligge la politica israeliana, aggravata, negli ultimi tempi, dalla cattiva gestione dell’emergenza sanitaria da Covid-19 da parte del premier Netanyahu. Il sermone di Friedman è anche – e soprattutto – un invito, al contempo moderato ed energico, a superare le profonde divisioni che lacerano la società e la politica israeliana, e a non considerare lo Stato d’Israele come “dato di fatto”, dandolo per scontato.
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La neo-legislatrice della Knesset si definisce ebrea, sionista, religiosa e femminista, e siede nelle file più a sinistra della comunità che rappresenta, il sionismo religioso. Noti in Israele come datiim le’umanim, i nazionalisti religiosi combinano credenze e costumi dell’ebraismo ortodosso alla convinzione nel diritto di autodeterminazione del popolo ebraico in Eretz Yisrael, la terra d’Israele di biblica risonanza. Tra i sionisti religiosi, gli uomini si riconoscono per la tipica kippah srugah, lavorata a maglia (e per questo definiti srugim), mentre le donne sono solite indossare lunghe gonne e coprirsi il capo quando escono di casa, proprio come Tehila. In genere, il nazionalismo religioso è espressione di una visione sociale conservatrice, molto spesso di destra, e tra le sue poliedriche affiliazioni ingloba anche il movimento dei coloni che propugna l’insediamento – spesso massivo e prepotente – degli ebrei in Cisgiordania. Non è questo, però, il caso dell’avvocato femminista Friedman, unico membro della sua coalizione di governo a far parte – tra le altre cose – della sottocommissione parlamentare sulla violenza contro le donne arabe.
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“Sono ebrea, religiosa, sionista religiosa, nazionalista, femminista, di Gerusalemme. Sono cresciuta con una certa lingua e tradizione… che ha la propria verità, bellezza e bontà. Ma so che in altre comunità e mondi c’è verità, bellezza e bontà, e posso imparare da loro”. Friedman adotta una posizione inconsueta, o quantomeno non scontata, per essere esponente di un ebraismo religioso e al contempo nazionalista. Nel suo discorso, la deputata aggiunge di avere di che imparare “dal tradizionalismo dei Mizrahi [ebrei “orientali”, provenienti dai paesi del Medio Oriente e Nord Africa], dagli ebrei dell’ex-Unione sovietica, dagli ebrei etiopi, dai discendenti dei pionieri e del sionismo laburista, dai liberali individualisti, dagli Haredim, dagli Hardalim”, ma anche “dagli arabi, dai drusi, dai beduini e dagli ebrei della diaspora”.
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Di qui emerge il quadro frammentato, poliedrico e complesso di cui si compone il mosaico della società israeliana, spesso poco raffigurato dai media internazionali. Gli oltre 9 milioni di cittadini israeliani, ebrei e arabi, sono divisi da faglie profondissime, che corrono lungo le linee della religione, dell’appartenenza “etnica”, della provenienza geografica e delle condizioni socioeconomiche. Tra ebrei laici ed ebrei religiosi, tra ebrei ashkenazi e mizrahi, etiopi e russi, ma anche tra ebrei “per tradizione” (masorti) ed ebrei ortodossi e ultraortodossi le divergenze sono spesso profonde, tanto a livello sociale quanto a livello politico. Per non parlare, poi, delle troppo poco ascoltate rivendicazioni politiche e identitarie della comunità arabo-palestinese in Israele, che costituisce il 20% circa della popolazione totale dello Stato ebraico. Non senza motivo, critici e studiosi parlano, per il caso israeliano, di deeply divided society (società profondamente divisa), e spesso nei media israeliani le varie componenti conflittuali e frammentarie della società israeliana sono ritratte come “tribù d’Israele” (shivtei Yisrael).
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Durante il suo intervento alla Knesset, Friedman riconosce che le differenze tra le varie comunità d’Israele non sono temporanee. In risposta a chi, in Parlamento, continua ad augurarsi la scomparsa di questo o quel gruppo per poter governare a briglie sciolte, Friedman ricorda, con non poco pragmatismo, che nessuno scomparirà, e che la vera sfida a cui è chiamata la vita politica israeliana è la coesistenza. Un tema particolarmente caro alla nuova deputata della Knesset, che dal 2014 è direttrice di programma all’istituto Shaharit, un think tankisraeliano che si impegna a creare politiche per il bene comune, tentando di cementare le diverse agende delle “popolazioni” d’Israele.
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Una guerra civile, tra fratelli, è molto più pericolosa e minacciosa di un nemico esterno. Nel I secolo d.C., il disaccordo tra le diverse comunità d’Israele su come trattare con i conquistatori Romani sfociò in una guerra d’identità, di tutti contro tutti. E così anche oggi, ricorda Friedman, “una terribile piaga si propaga ferocemente da fuori, e dentro lo stesso desiderio distruttivo di sconfiggersi gli uni con gli altri”. La crisi economica, sociale e sanitaria aggravata dal dilagare della “piaga” del coronavirus si aggiunge ad una crisi delle istituzioni israeliane di più lunga durata, che da almeno un anno e mezzo genera immobilismo e inattività politica nel paese. E con il rischio di nuove, ennesime elezioni nel giro di pochi mesi. La deputata di Kahol-Lavan incoraggia, dunque, la creazione di una nuova alleanza di moderati, di un centro condiviso che metta fine all’arroganza e all’egoismo di gruppuscoli che tentino di imporre la propria visione politica e sociale, ritenendola l’unica corretta. Tehila Friedman si appella ai valori della democrazia, della moderazione e di un ebraismo “che fa spazio agli altri”, in nome di una leadership che non vendichi i torti del passato, ma che guardi alla ricostruzione e alla riconciliazione.
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