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Mentre le negoziazioni con il Fondo Monetario Internazionale sono in una fase di stallo, la Cina potrebbe aiutare il Paese a risollevarsi. Ma ciò non sarà sufficiente, se non verranno implementate delle riforme strutturali.
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La crisi economica e finanziaria in Libano si fa sempre più acuta. La lira ha perso l’80% del suo valore, i prezzi sono triplicati o, in alcuni casi, quadruplicati, e si stima che, entro la fine dell’anno, il 60% della popolazione sarà al di sotto della soglia di povertà. A metà maggio, il governo guidato da Hassan Diab aveva chiesto l’assistenza del Fondo Monetario Internazionale, dopo aver dichiarato il default lo scorso marzo. L’erogazione del prestito di 10 miliardi di dollari è subordinato all’introduzione di riforme volte a ristrutturare l’enorme debito pubblico libanese e a combattere la corruzione rampante. Tuttavia, le negoziazioni con il Fondo Monetario, ora, sono in una fase di stallo. Le dimissioni di Alain Bifani, per lungo tempo direttore del ministero delle Finanze ed artefice del piano di salvataggio del governo, hanno dimostrato l’assenza della volontà politica di attuare misure di austerità che, inevitabilmente, andrebbero ad intaccare i privilegi di cui l’élite gode.
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Mentre gli aiuti del FMI appaiono incerti, un altro attore si sta imponendo sulla scena libanese. La Cina, che gioca un ruolo sempre più attivo in Medio Oriente, sembra essere la sola a poter salvare il Paese dei Cedri. Il 40% delle importazioni in Libano sono di origine cinese e, a seguito della pandemia, Beijing ha esteso la sua influenza con quella che è ormai nota con il nome di “la diplomazia delle mascherine”, ossia una strategia di soft power per mezzo dell’assistenza medica. Cooperazione incoraggiata dal segretario generale di Hezbollah, Hassan Nasrallah, che, in un discorso televisivo, ha detto che la Cina è pronta ad investire in Libano. Inizialmente, il partito si era opposto agli aiuti internazionali provenienti da “strumenti imperialisti”, salvo poi adottare una posizione più pragmatica, accettando l’assistenza esterna, pur restando critico circa le condizionalità.
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“Rivolgersi ad est”, accettare, quindi, l’assistenza cinese potrebbe implicare il deterioramento delle relazioni storiche con gli Stati Uniti, rinuncia che non è scontata. Qualunque sia l’origine degli aiuti, questi non saranno sufficienti, se le cause profonde della crisi non verranno affrontate. È necessario attuare delle misure urgenti contro la corruzione e contro la cattiva gestione, richieste principali dei manifestanti. Ma, ancora una volta, la classe politica non sembra voler fornire delle risposte serie.
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