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I negoziati tra Regno Unito e Unione europea sullo scenario post Brexit sono in una fase di stallo. L’epidemia di Covid-19 ha inevitabilmente rallentato il dialogo, lasciando in sospeso il dibattito sugli accordi commerciali, sui meccanismi di risoluzione delle controversie e sulla questione dell’Irlanda del Nord. Tuttavia, il premier britannico Boris Johnson non ha chiesto la proroga del periodo di transizione, che si concluderà il 31 dicembre 2020. Pertanto, è necessario che entro l’autunno si raggiunga un’intesa sulle future relazioni tra Londra e Bruxelles. In caso contrario, si rischia di giungere all’epilogo più temuto, la Hard Brexit.
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Sono ormai passati quattro anni dal referendum sulla permanenza del Regno Unito nell’Unione europea e dalla vittoria del “leave”, ma la partita sulla Brexit non si è ancora chiusa. Dopo un autunno di negoziati frenetici, il 31 gennaio 2020 Londra si è ufficialmente separata da Bruxelles. Tuttavia, con l’entrata in vigore dell’Accordo di recesso del Regno Unito dall’UE, il 1 febbraio 2020, ha avuto inizio un periodo di transizione, che durerà fino al 31 dicembre, nel corso del quale il Regno Unito continuerà a partecipare al mercato unico e all’unione doganale (continuando ad applicare le norme europee in materia di libera circolazione di merci, servizi, capitali e persone), mentre non potrà prendere parte ai processi decisionali europei né stipulare accordi commerciali con altri Stati senza l’autorizzazione dell’UE. Durante il regime transitorio, il Regno Unito e l’Unione europea dovranno negoziare la regolamentazione delle loro relazioni future, al fine di raggiungere un’intesa sullo scenario post Brexit, sia in ambito economico e commerciale che in ambito politico e giurisdizionale.
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Si tratta di un’impresa ardua, dal momento che le questioni al tavolo dei negoziati sono complesse e richiedono flessibilità, pragmatismo e, soprattutto, tempo. Per tale ragione, in considerazione del fatto che un anno, o poco meno, è un lasso di tempo troppo breve per trovare un accordo su tutti i temi di maggiore rilevanza, sin dall’inizio è stata prevista la possibilità per il governo britannico di chiedere una proroga dei termini del periodo di transizione. Tale opzione era considerata dai negoziatori europei come una scelta inevitabile per la controparte inglese, ancor di più a seguito della diffusione dell’epidemia di Covid-19, e del conseguente rallentamento delle trattative. Contrariamente alle aspettative, però, Boris Johnson non hai mai mostrato un’apertura in tal senso e, anzi, si è sempre detto deciso a portare a termine i negoziati entro fine anno, anche a costo di un’uscita “no deal”.
A questo punto, non resta che lasciare che le trattative riprendano a ritmo serrato, a meno di ulteriori colpi di scena, con l’auspicio che le parti, rappresentate da David Frost, capo negoziatore britannico per la Brexit, e dal suo omologo Michel Barnier per l’UE, riescano a raggiungere un’intesa sulle relazioni future entro l’autunno, precisamente entro il 31 ottobre di quest’anno, in modo da consentire la ratifica dell’accordo da parte del Parlamento europeo e di ciascuno dei 27 Stati membri e, quindi, la sua entrata in vigore il 1° gennaio 2021.
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A dominare l’agenda dei negoziati ci sono, senza dubbio, le questioni legate agli scambi commerciali, sulle quali le parti divergono al tal punto da rimanere paralizzate in un vera e propria situazione di stallo. Il Regno Unito ambisce ad un accordo di libero scambio sul modello di quelli stipulati dall’Unione europea con il Canada e con il Giappone, che non preveda l’applicazione di dazi doganali né l’adozione di particolari standard di regolamentazione per il commercio e per gli investimenti. I negoziatori europei, invece, temendo che in futuro il Regno Unito possa fare concorrenza sleale all’UE, applicando standard di regolamentazione meno elevati di quelli comunitari su merci, servizi e lavoro, si appellano al “level playing field” e chiedono al governo inglese di adeguarsi agli standard europei, se realmente intenzionato a raggiungere un accordo di libero scambio con esclusione di dazi commerciali. Per il Regno Unito si tratta di una proposta irragionevole, principalmente per due motivi. In primo luogo, non sarebbe corretto supporre che la regolamentazione inglese su commercio e investimenti sia in ogni caso meno stringente di quella europea, dal momento che, diversamente, in numerosi ambiti gli standard inglesi superano quelli europei. In secondo luogo, dal momento che l’UE non ha posto anche ad altri partner commerciali il vincolo dell’adeguamento agli standard comunitari, tale richiesta viene percepita dagli inglesi come una sorta di ritorsione conseguente all’uscita dall’Unione. Tuttavia, che il Regno Unito non intendesse adeguarsi agli standard commerciali europei era chiaro già nell’autunno scorso, quando aveva chiesto e ottenuto di rimuovere il richiamo al level playing field dall’Accordo di recesso, per lasciarne solo un riferimento all’interno della relativa dichiarazione politica[1], di natura meramente programmatica, non vincolante tra le parti.
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Al tema degli scambi commerciali è certamente legata anche la questione della pesca, che pur non avendo un peso determinante dal punto di vista economico, rappresenta un tema particolarmente significativo dal punto di vista politico. Attualmente è previsto il libero accesso dei pescherecci europei alle acque territoriali inglesi e viceversa, ma in futuro il Regno Unito potrebbe limitare o, addirittura, impedire del tutto la pesca nelle proprie acque territoriali. Cavallo di battaglia dei Brexiteers, il tema della riappropriazione dei diritti di pesca è stato frequentemente richiamato in campagna elettorale da Boris Johnson e costituisce uno dei punti più discussi del dibattito sullo scenario post Brexit. L’UE ritiene che i diritti di pesca debbano essere disciplinati da un accordo complessivo che definisca tutti gli aspetti delle relazioni commerciali tra UE e Regno Unito, tenendo conto del level playing field. Il Regno Unito, invece, intende gestire la questione attraverso un apposito accordo che regoli l’accesso alle acque territoriali e le possibilità di pesca con un meccanismo di rinnovo annuale, riprendendo così un modello già utilizzato dall’UE con Norvegia e Islanda. Dal momento che i negoziatori europei ritengono che l’accordo di libero scambio debba essere subordinato all’accordo sulla pesca, si può dire che la questione sui diritti di pesca si collochi sul piano politico, in quanto strumentalizzata al fine di negoziare i termini degli scambi tra le parti.
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Di natura politica, infine, sono anche le questioni legate alla governance, alla cooperazione giudiziaria e allarisoluzione delle controversie. Bruxelles propone che, in caso di controversie che sollevino questioni di interpretazione del diritto europeo, si debba adire la Corte di giustizia dell’UE e procedere alla risoluzione del caso in virtù di una decisione vincolante dei giudici europei. Tuttavia, ciò significherebbe continuare a basare le relazioni tra Regno Unito e UE sulla legislazione europea. Pertanto, Londra replica alla proposta della controparte escludendo l’arbitrato internazionale, sostenendo che l’accordo, dovendo tutelare la sovranità di entrambe le parti, non possa prevedere la giurisdizione della Corte di giustizia dell’UE o altre forme di controllo sovranazionale sulle leggi del Regno Unito, in nessun settore, compresa la gestione dei confini e la politica sull’immigrazione.
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Il richiamo ai confini, oltre che al tema dell’immigrazione, fa pensare anche alla questione della frontiera nordirlandese, che il Regno Unito intende gestire in piena autonomia. I già delicati rapporti tra Londra e Belfast, infatti, rischiano di incrinarsi ulteriormente a causa della Brexit. In campagna elettorale Boris Johnson aveva promesso che non sarebbero state mai costruite barriere doganali tra la Gran Bretagna e l’Ulster, la regione nord orientale dell’Irlanda del Nord, diversamente da quanto invece richiesto dall’UE con il duplice intento di evitare che i prodotti inglesi venissero esportati in Irlanda – e da lì nel resto dell’Europa – senza alcun controllo e, al contempo, di evitare di suscitare le dure reazioni dei separatisti, nel caso in cui le dogane fossero state collocate al confine con l’Eire. Tuttavia, il governo britannico ha ritrattato la sua posizione e ha recentemente annunciato che presto verranno poste delle dogane nelle città di Belfast, Warrenpoint e Larne, al fine di controllare le merci in uscita, potenzialmente dirette verso il mercato europeo. Questa soluzione potrebbe acuire la spaccatura con l’Irlanda del Nord e fomentare le rivendicazioni dei separatisti, notoriamente favorevoli alla riunificazione con la Repubblica d’Irlanda e alla permanenza nell’UE e nel mercato unico. Pertanto, è opportuno che nel prossimo futuro Londra guardi con attenzione anche a questo fronte.
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I sostenitori del “leave” hanno sempre cercato di fare leva sulle opportunità derivanti dall’uscita dall’UE. Tra queste, soprattutto la possibilità di concludere in maniera autonoma accordi commerciali, in particolar modo con gli Stati Uniti, di controllare meglio l’immigrazione nel Paese e, in generale, di poter eludere la burocrazia europea. Di fatto, però, la strategia dell’esecutivo inglese, con l’atteggiamento fermo e caparbio di Boris Johnson, mai disposto a scendere a compromessi, rischia di minare la prosperità del Regno Unito, di far tornare alle regole del WTO, con dazi e tariffe doganali, di causare la perdita di numerosi posti di lavoro e il ritiro degli investimenti nel Paese. Inoltre, le elezioni presidenziali che si terranno in autunno potrebbero determinare un cambio di rotta per gli Stati Uniti e infrangere il sogno britannico di un accordo commerciale tra Washington e Londra, alterando così i piani. Dal canto suo, in assenza di un accordo, anche l’UE potrebbe perdere un importante partner commerciale ed essere costretta a ridurre drasticamente le esportazioni nel Regno Unito. Sono tutti questi, infatti, i rischi a cui si andrebbe incontro qualora non si riuscisse a raggiungere un compromesso adeguato per scongiurare l’epilogo più temuto, quello della Hard Brexit.
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Note
[1] La Dichiarazione Politica sul quadro delle future relazioni tra UE e Regno Unito.
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