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Le proteste legate alla morte di George Floyd, il quarantaseienne afroamericano deceduto a Minneapolis per mano degli agenti di polizia, si ripercuotono gravemente sulle relazioni bilaterali Cina-USA. L’idea di base è che Pechino strumentalizzi il movimento anti-razziale americano per due motivi: in primis, costruire un’immagine di una Cina non violenta e non razzista; in secondo luogo, tenere gli Stati Uniti fuori dalla questione di Hong Kong.
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Il messaggio di un dragone aperto, inclusivo e non razzista è stato veicolato dai media statali, in particolar modo Xinhua, che attraverso una serie di interviste ad accademici ungheresi e australiani ha raccontato un’America che soffre di razzismo sistemico, profonde divisioni socio-economiche, etniche e razziali. Il governo cinese non si è tirato indietro da questa ondata propagandistica; al contrario, il portavoce del Ministero degli Esteri Zhao Lijian ha più volte ricordato che la Cina si oppone ad ogni forma di discriminazione razziale e si schiera dalla parte degli afroamericani.
Insomma, il messaggio implicito è chiaro, la Cina è migliore dell’America del presidente Trump perché a Pechino non si verificano proteste di questo genere. Gli osservatori imparziali ricorderanno che episodi gravi di discriminazione razziale ed etnica non sono sconosciuti a Pechino, basti pensare alle vicende dei migranti africani a Guangzhou e alla violenza subita dalle minoranze uigure e tibetane nella Cina nord-occidentale.
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Per quanto concerne Hong Kong, la partita si gioca sul supporto delle istituzioni americane al movimento pro-democrazia. Membri del congresso e il segretario di stato Pompeo hanno espresso solidarietà con i manifestanti di Hong Kong in occasione delle proteste legate all’extradition bill e alla legge di sicurezza nazionale. Il governo cinese sfrutta la vicenda Floyd per accusare gli USA di “doppi-standard”, ovvero di supportare le proteste che danneggiano il nemico ed invece, di reprimerle attraverso il dispiegamento della Guardia Nazionale quando queste toccano il proprio paese. Il sopracitato Zhao Lijian ha legato le due vicende, esortando ripetutamente gli USA a non interferire negli affari interni cinesi e a dedicarsi alle proteste che hanno già coinvolto tutti i 50 stati causando almeno 11 morti. Il messaggio in questo caso è piuttosto esplicito, meglio occuparsi delle piaghe che dividono il proprio paese, prima di intromettersi in questioni altrui.
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Il colpo di grazia per le delicatissime relazioni sino-americane è arrivato sabato 6 giugno, quando il dipartimento di stato USA ha pubblicato un comunicato stampa del segretario Pompeo. Il breve documento accusa Pechino di sfruttare la morte di Floyd per fini propagandistici e di truffare il mondo intero attraverso la continua negazione di libertà e diritti umani. Pompeo cita Hong Kong, Taiwan, Xinjiang, libertà di stampa, espressione, religione e rispetto della legge come esempi in cui gli Stati Uniti si fanno campioni della libertà al contrario di una Cina portatrice di dittatura, comunismo e repressione.
Nonostante si attenda ancora la risposta cinese, le prospettive future sembrano orientate verso un’infinita lotta retorica alla ricerca del migliore. Forse, in questo caso, le due potenze dovrebbero fermarsi e riflettere sulle divisioni che minacciano la stabilità dei loro paesi più di quanto non lo possa fare una “nuova guerra fredda” sino-americana.
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