Sull'Afghanistan Trump naviga a vista

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Quando sembrava che i colloqui tra le delegazioni statunitensi e talebane potessero portare alla formalizzazione di un accordo sulla riduzione dell’impegno militare USA in Afghanistan, il coup de theatre del Presidente Trump ha spiazzato tutti. Lo scorso 8 settembre erano programmati due meeting separati e segreti (ben presto divenuti di dominio pubblico) presso la residenza presidenziale di Camp David: uno tra i leader talebani ed esponenti di alto livello del Dipartimento di Stato (Presidente compreso); l’altro tra il Presidente afghano Ashraf Ghani e la controparte statunitense. A qualche ora dall’incontro, il Presidente Trump ha bloccato tutto, adducendo come motivazione gli ultimi attacchi rivendicati dai Talebani che hanno causato il decesso di 12 persone, tra cui un soldato americano. “Se non possono stabilire un cessate il fuoco durante questi giorni di negoziati, loro (i leader Talebani) probabilmente non hanno il potere di concludere un accordo significativo”, ha aggiunto Trump, enfatizzando l’ultimo atto di una scia di sangue che nel mese di agosto afghano ha mietuto una media di 74 vittime al giorno, secondo le informazioni elaborate dalla BBC.

In effetti, malgrado i progressi raggiunti durante i 9 colloqui di Doha[1], la violenza in Afghanistan stenta a placarsi. La cronaca delle ultime settimane racconta di due attacchi bomba simultanei: il 17 settembre le forze talebane hanno colpito Kabul, causando 50 morti. Uno dei due attacchi mirava ad un raduno elettorale a sostegno del Presidente Ghani, il favorito per la vittoria delle elezioni presidenziali previste per il 28 settembre. In questo clima di crescente e violenta contrapposizione, gli insorti talebani non riconoscono, com’è noto, l’autorità del governo Ghani, il quale, in concerto con le truppe americane e NATO, sta reagendo con mano pesante per reprimere le offensive dei Talebani, che ad oggi controllano più della metà del territorio afghano. Lo stesso governo di Kabul non ha mai nascosto la sua contrarietà ad un eventuale deal che preveda la repentina riduzione della presenza militare americana in Afghanistan. Si teme, infatti, che una parziale ritirata dei contingenti stranieri possa imbaldanzire ancor più le forze talebane, lasciando loro un più ampio margine di libertà organizzativa.

Il controllo del territorio afghano diviso tra le forze talebane e quelle governative. (Credits to Al Jazeera)

Le opzioni strategiche e il gioco delle parti: il cammino per la pace appare lungo e tortuoso

Lo scorso 29 agosto, al termine del nono tavolo negoziale di Doha, il Presidente Trump dichiarava a Fox news che stava programmando una riduzione delle truppe dislocate in Afghanistan da 14.000 a 8.600 unità. Tale opzione era stata riferita con un’intervista del rappresentante speciale USA Zalmay Khalilzad, il diplomatico statunitense, nato in Afghanistan, incaricato dal Presidente per condurre i negoziati con i leader Talebani. A quanto trapela, sebbene non ne siano stati comunicati i dettagli, era stato abbozzato un “accordo di principio” fondato sul ritiro di 5.400 soldati USA in 20 settimane. In cambio, i Talebani avrebbero dovuto impegnarsi ad imbastire un dialogo con il governo centrale sul processo di pace intra-afghano, insieme alla promessa inderogabile di negare una volta per tutte la protezione ai nuclei dei gruppi terroristici (Al-Qaeda, ISIS e affiliati), i quali utilizzano parte del territorio afghano controllato dalle milizie talebane come base operativa. È evidente come, prima del passo indietro di Trump, le due parti non stessero lavorando ad un accordo di pace, bensì sulla riduzione dell’impegno militare americano e su una sorta di riconciliazione nazionale. Tuttavia, senza un preliminare patto sul cessate il fuoco ogni tentativo di intesa appare destinato al fallimento. E ciò per molteplici ragioni, legate alle convenienze strategiche di ciascuna delle parti coinvolte. Proviamo ad illustrarle.                                                                                                                                             

Milizie talebane in Afghanistan.

Innanzitutto, il Presidente Trump non ha mai abbandonato l’idea di un disimpegno militare dall’Afghanistan. «I nostri soldati in Afghanistan sono diventati forze di polizia, e questo non è il loro compito», ha dichiarato recentemente Trump, che utilizzò il tema durante la campagna elettorale del 2016 per attaccare l’approccio del ticket Obama-Clinton. Tuttavia, un ritiro dall’Afghanistan potrebbe non essere indolore. Premesso che un ritiro totale dei contingenti potrebbe gettare il Paese in una spirale di instabilità violenza assai più cruenta – e dunque sembra poco fattibile-, la possibilità più realistica sarebbe una progressiva riduzione dell’impegno militare in tempi diluiti. Questa ultima opzione è vista con sospetto dai Talebani, i quali da un lato vorrebbero stringere i tempi della ritirata militare e concludere un accordo internazionale in presenza di Russia, Cina e Pakistan, dall’altro hanno avvertito gli americani sulle eventuali conseguenze di un ritiro senza accordo: «Se firmiamo un accordo di pace con loro (gli USA), avremmo l’obbligo di non attaccarli e provvedere ad un salvacondotto; ma se loro si ritirassero senza firmare alcun accordo con noi, dipenderà dal nostro assenso e dalla nostra volontà se attaccarli o meno», ha puntualizzato il portavoce dei Talebani Suhail Shaheen.

La preoccupazione principale di Washington, però, rimane la vicinanza dei Talebani alle varie declinazioni del terrorismo internazionale, tra cui Al-Qaeda rappresenta la fazione più risoluta e radicata nel paese. Dal canto suo, il governo di Kabul, sebbene si dica preoccupato per la cancellazione dei negoziati tra USA e Talebani, potrebbe storcere il naso ad un accordo che restringa i tempi della ritirata americana. In quest’ultimo caso, i Talebani potrebbero riprendere la loro marcia verso Kabul, mettendo in difficoltà un governo Ghani in aria di rielezione. Alla luce degli elementi presi in esame, è in dubbio se i colloqui tra le due delegazioni riprenderanno. Nel frattempo, l’amministrazione Trump ha tagliato 160 milioni $ di aiuti finanziari a favore del governo Ghani, perché, a detta del Segretario Pompeo, la classe politica afghana ha fallito nella lotta contro la corruzione. Lungi da una risoluzione pacifica ed in tempi brevi, la via per una riconciliazione nazionale, che veda protagonisti tutti gli attori in campo, pare assai travagliata.Anche per gli USA di Trump l’Afghanistan si sta rivelando un vicolo cieco.    

https://www.cfr.org/timeline/us-war-afghanistan

https://www.aljazeera.com/news/2019/09/trump-taliban-peace-talks-dead-190909183728653.html

https://www.reuters.com/article/us-usa-afghanistan-talks/afghan-president-sees-his-chance-after-collapse-of-u-s-taliban-talks

https://www.bbc.com/news/world-asia-49729612


[1] Capitale del Qatar, dove i talebani hanno una sede politica. È stata teatro per più di 1 anno di colloqui tra le delegazioni talebane e quelle statunitensi (l’ultimo si è tenuto lo scorso 22 agosto).

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Classe 95, analista di politica estera USA, membro del direttivo IARI e brand ambassador. Studente magistrale in Relazioni Internazionali (indirizzo Diplomazia e Organizzazioni internazionali) presso l’Università degli Studi di Milano. Ho conseguito la laurea triennale in “Storia, politica e Relazioni internazionali” a Catania- città di cui sono originario- con una tesi sul rapporto tra giornalismo e comunicazione politica durante alcuni eventi salienti della storia contemporanea di Italia e Stati Uniti.
Per IARI mi occupo di politica estera e interscambio diplomatico degli Stati Uniti con i principali attori internazionali. Ma anche di questioni energetiche e sicurezza nazionale. Approfondisco tali tematiche da diversi anni, in un’ottica che contempera dimensione giuridica, storica, diplomatica, militare ed economica.
Ho sposato il progetto IARI fin dal primo giorno della sua fondazione, perché ho visto un gruppo affiatato, competente e motivato a creare una realtà che diventasse un punto di riferimento per il mondo accademico italiano, ma anche per chi desidera avere un quadro sulla politica e i fenomeni internazionali. Abbiamo scelto il formato di think tank specializzato in quanto fenomeni complessi come quelli internazionali meritano un’elaborazione analitica, precisa e pluridimensionale, che non semplifichi le questioni con ideologie e luoghi comuni (così come spesso accade nelle testate giornalistiche del nostro Paese). Pertanto, l’analista deve mettere le sue competenze a disposizione del lettore, individuando possibili scenari e fornendo a chi legge tutti gli elementi necessari alla formazione di un’opinione.

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