Circa 5.750 militari di Esercito, Marina, Aeronautica e Arma dei Carabinieri sono impegnati all’estero nell’ambito di missioni sotto egida ONU, UE e NATO o in operazioni di assistenza alle Forze Armate locali per la stabilizzazione delle aree di crisi. Le Forze Armate italiane sono i primi contributori alle missioni di peacekeeping dell’Unione Europea, i secondi nella NATO e i primi tra i Paesi occidentali nelle missioni gestite dalle Nazioni Unite. I militari italiani sono attualmente impegnati in 41 missioni in 24 Paesi, tra i quali Iraq, Afghanistan, Libano, Kosovo, Kuwait, Somalia, Gibuti, Libia, Egitto, Turchia, Niger, Albania.
Nel segno di un impegno militare, politico e finanziario di assoluto rilievo, queste missioni a partire dagli anni Ottanta hanno sempre rappresentato un punto fermo della politica estera e di difesa dell’Italia. Nell’ultimo ventennio lo strumento delle missioni internazionali ha subito profondi cambiamenti divenendo un vero e proprio elemento cardine che ha consentito all’Italia e alle sue Forze armate di guadagnare visibilità internazionale e di raggiungere l’eccellenza in diversi settori operativi. Compiute solitamente all’interno di un contesto multinazionale, le missioni hanno contribuito a sostenere l’azione diplomatica e consolidare il rango internazionale dell’Italia in diversi contesti geopolitici.

Le prime missioni a partecipazione italiana di una certa consistenza risalgono agli anni Ottanta, precisamente con le operazioni Libano 1 e Libano 2, svoltesi rispettivamente nel 1982 e dal 1982 al 1984, che hanno segnato una vera e propria svolta nell’esposizione del ruolo internazionale dell’Italia. Alla luce della loro durata, nonché della loro dimensione e del riscontro positivo ottenuto sul campo, le missioni in Libano sono state le prime ad attrarre in modo decisivo l’attenzione dell’opinione pubblica italiana. Questo trend si è consolidato negli anni Novanta che hanno visto un’accelerazione del coinvolgimento militare italiano all’estero, in particolare attraverso la partecipazione alle operazioni conseguenti alla crisi del Golfo Persico (1990-1991) e alle vicende dei Balcani (in particolare nel 1995 e nel 1999), Dal 2000 in poi, il numero annuale delle missioni si è mantenuto vicino alle 30, continuando a testimoniare l’impegno dell’Italia nella proiezione militare all’estero, a prescindere dal colore politico del governo in carica.
Nel decennio scorso, particolare rilievo hanno assunto le operazioni Enduring Freedom e ISAF in Afghanistan e Antica Babilonia in Iraq, principalmente perché hanno segnato il passaggio da operazioni con forte connotazione di peace-keeping a più basso rischio a operazioni in contesti operativi complessi e più pericolosi con un mandato più spiccatamente di peace-enforcing. Inoltre, si è trattato di missioni in cui la comunità internazionale ha cercato di rispondere all’insorgere di una nuova tipologia di minacce transnazionali, in particolare quella terroristica che ha acquisito un rilievo eccezionale dopo l’11 settembre 2001. La necessità per i contingenti italiani di operare in conflitti a media intensità, derivato dal coinvolgimento italiano nel conflitto afghano e in quello iracheno, ha contribuito ad accelerare il processo di ammodernamento e riorganizzazione delle Forze armate.
Operazioni di mantenimento della pace (peace-keeping) 40% |
Operazioni di assistenza internazionale 36% |
Operazioni di imposizione della pace (peace-enforcing) 17% |
Operazioni di ristabilimento della pace e prevenzione del conflitto (peace-making) 7% |
Da questi dati si evince una forte propensione italiana alle operazioni di peace-keeping, che per definizione richiedono il consenso dello stato in cui si svolge la missione, in tal modo contribuendo a rendere meno “invasiva” la presenza di contingenti militari sul campo. Dal punto di vista della struttura, alla tradizionale componente militare si è gradualmente aggiunto personale civile e di polizia, per far fronte alle modifiche funzionali delle missioni di peace-keeping nel corso degli ultimi anni, con un maggiore riconoscimento della stretta interconnessione esistente tra peace-keeping, peace-building e nation-building. Per svolgere funzioni quali disarmo, sminamento, ricostruzione civile e riabilitazione di ex-combattenti, assistenza nei processi elettorali, appoggio alle autorità locali nel settore dello stato di diritto, l’Italia ha contribuito negli ultimi anni ad un crescente invio di personale specializzato delle Forze di Polizia, della Guardia di Finanza e della Giustizia.

Sempre più la Nato e l’Unione europea, e in misura minore l’Osce, sono andate aggiungendosi alle Nazioni Unite come punti di riferimento internazionali nel cui ambito svolgere le missioni. In generale, l’intervento militare italiano è stato caratterizzato da un forte carattere multilaterale, con le missioni di pace quasi sempre eseguite all’interno di una coalizione multinazionale. Ma è soprattutto la qualità a caratterizzare l’intervento italiano, con un costante riscontro positivo da parte della popolazione civile che ha fatto parlare di un modello italiano di peace-keeping, a partire dalla missione in Libano nel 1982 e rafforzatosi con le missioni in Albania, Somalia, Mozambico e oggi di nuovo in Libano e Afghanistan. Fu proprio nel corso della missione Italcon-Libano 2, iniziata nel settembre 1982, che tra gli addetti ai lavori si cominciò a parlare di una via italiana al peace-keeping in relazione alle particolari modalità di conduzione della missione che includevano, tra i loro caratteri distintivi, una forte imparzialità e una particolare attenzione ai bisogni della popolazione civile e agli aspetti umanitari. Nel corso degli anni, questi tratti distintivi, uniti ad una speciale comprensione da parte dei militari italiani del contesto operativo in cui si trovano ad operare e ad un forte inserimento nel contesto sociale, hanno in effetti caratterizzato l’intervento italiano in molteplici missioni di supporto alla pace.
È alquanto diffusa nella classe dirigente italiana che si occupa di politica estera e di difesa, e quindi delle missioni internazionali cui il paese partecipa, la percezione dell’Italia come media potenza, collocata nel sistema internazionale in una posizione diversa da quella delle potenze mondiali, ma anche da quella dei piccoli stati della comunità internazionale. Tale percezione riflette delle evidenti disparità in termini geografici, economici e demografici, tra l’Italia e altri grandi paesi del mondo. Tale posizione, alquanto indeterminata e soggetta a variazioni, ha costantemente spinto l’Italia a sforzarsi di essere presente nelle alleanze, nelle istituzioni e in generale nei consessi che contano, al fine di riaffermare e difendere un ruolo e uno status giudicato necessario per la salvaguardia degli interessi nazionali in diversi settori, a vario titolo influenzati dalle dinamiche del sistema internazionale – quali ad esempio sicurezza, economia, energia, ma anche tutela dell’ambiente, protezione dei diritti umani ed evoluzione del diritto internazionale. Non a caso, la classe dirigente italiana nel secondo dopoguerra ha puntato non solo ad entrare rapidamente nell’Onu, ma a fare dell’Italia un paese fondatore della Nato, della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (Ceca) e poi della Comunità economica europea (Cee).

La partecipazione dell’Italia alle missioni di pace sotto egida ONU risponde a una duplice logica, ossia la posizione di media potenza e l’impegno per un approccio multilaterale. Da un lato infatti l’Italia ha partecipato alle missioni ONU, come ad esempio quelle in Somalia e Libano, anche nella convinzione che fosse suo interesse dimostrarsi un membro attivo, responsabile e affidabile delle Nazioni Unite. L’impegno in una cornice multilaterale non preclude, ma è anzi complementare, allo sforzo dell’Italia per costruire una rete di rapporti bilaterali con paesi giudicati importanti per gli interessi nazionali. Anche in questo contesto, una consistente e attiva partecipazione italiana a missioni internazionali in teatri di crisi importanti, quale ad esempio quello libanese a ridosso del confine israeliano, contribuisce a fare dell’Italia un interlocutore importante per la regione, e rafforza quindi la posizione italiana anche nell’ambito dei rapporti bilaterali con i paesi dell’area.
La sempre maggiore presenza dell’Italia nelle missioni internazionali si spiega anche con la necessità del nostro paese di consolidare il proprio ruolo all’estero: l’Italia non ha un seggio alle Nazioni Unite, non possiede l’arma atomica e spende per la difesa meno di altri Stati (appena l’1 per cento del Pil contro una media dei paesi Nato pari almeno al 2 per cento del Pil). Ma soprattutto sconta, spesso, una discontinuità in politica estera che a volte la penalizza. Le nuove missioni avviate l’anno scorso, però, hanno concentrato di più l’attenzione sull’Africa: oggi, la presenza italiana insiste in Libia, Niger, Tunisia, Sahara occidentale e Repubblica centrafricana. La decisione di ridimensionare il nostro contingente intorno alla diga di Mosul (in Iraq) e in Kuwait per ridistribuirlo verso l’Africa, punta a concentrare gli sforzi sul contrasto dell’immigrazione clandestina nei punti di partenza. Un cambio di rotta rispetto al passato, dunque, che segna un decisivo riposizionamento strategico dell’Italia, oggi focalizzata di più sulla politica euro mediterranea e sul continente nero.
Isernia P. e Longo F. (2019). La politica estera italiana nel nuovo millennio. Edizione il Mulino.
Forte S. e Marrone Alessandro (2012). “L’Italia e le missioni internazionali”. Documenti istituto affari internazionali.
https://www.difesa.it/OperazioniMilitari/Pagine/OperazioniMilitari.aspx